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11 settembre 2019

da Lettera a una professoressa

La scuola di Barbiana
da Lettera a una professoressa

Cara signora, lei di me non ricorderà nemmeno il nome. Ne ha bocciatitanti. Io invece ho ripensato spesso a lei, ai suoi colleghi,a quell’istituzione che chiamate scuola, ai ragazzi cherespingete. Ci respingete nei campie nelle fabbriche e ci dimenticate.
Due anni fa, in prima magistrale, lei mi intimidiva. Del resto la timidezzaha accompagnato tutta la mia vita. Da ragazzo non alzavo gli occhi daterra. Strisciavo alle pareti per non esser visto. Sul principio pensavo che fosse una malattia mia o al massimo della mia famiglia. La mamma è diquelle che si intimidiscono davanti a un modulo di telegramma. Il babbo osserva e ascolta, ma non parla. Più tardi ho creduto che la timidezza fosseil male dei montanari. I contadini del piano mi parevano sicuri di sé. Gli operai poi non se ne parla. Ora ho visto che gli operai lasciano ai figli di papà tutti i posti di responsabilità nei partiti e tutti i seggi in parlamento. Dunque son come noi. E la timidezza dei poveri è un mistero più antico. Non glielo so spiegare io che ci son dentro. Forse non è n é viltà né eroismo. È solo mancanza di prepotenza.
Alle elementari lo Stato mi offrì una scuola di seconda categoria. Cinque classi in un’aula sola. Un quinto della scuola cui avevo diritto. È il sistema che adoprano in America per creare le differenze tra bianchi e neri. Scuola peggiore ai poveri fin da piccini.
Finite le elementari avevo diritto a altri tre anni di scuola. Anzi la Costituzione dice che avevo l’obbligo di andarci. Ma a Vicchio non c’era ancora scuola media. Andare a Borgo era un’impresa. Chi ci s’era provato aveva speso un monte di soldi e poi era stato respinto come un cane. Ai miei poi la maestra aveva detto che non sprecassero i soldi:Mandatelo nel campo. Non è adatto per studiare. Il babbo non le rispose. Dentro di sé pensava:Se si stesse di casa a Barbiana sarebbe adatto.
A Barbiana tutti i ragazzi andavano a scuola dal prete. Dalla mattina presto fino a buio, estate e inverno. Nessuno eranegato per gli studi. Ma noi eravamo di un altro popolo e lontani. Il babbo stava perarrendersi. Poi seppe che ci andava anche un ragazzo di S. Martino. Allora sifece coraggio e andò a sentire.
Quando tornò vidi che m’aveva comprato una pila per la sera, un gavettino per la minestra e gli stivaloni di gomma per la neve. Il primo giorno mi accompagnò lui. Ci si mise due ore perché ci facevamo strada col pennato e la falce. Poi imparai a farcela in poco più di un’ora. Passavo vicino a due case sole. Coi vetri rotti, abbandonate da poco. A tratti mi mettevo a correre per una vipera o per un pazzo che viveva solo alla Rocca e mi gridava di lontano. Avevo undici anni. Lei sarebbe morta di paura. Vede? ognuno ha le sue timidezze. Siamo pari dunque. Ma solo se ognuno sta acasa sua. O se lei avesse bisogno di dar gli esami da noi. Ma lei non ne ha bisogno.

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