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30 dicembre 2019

Rubens il partigiano e altri racconti - Enzo Montano

 Rubens il partigiano e altri racconti - Enzo Montano
dal racconto “La festa”

Tutto era festa in campagna. La vita umile, gli stenti, le fatiche, i sudori, il dolore della separazione di chi andava via si dimenticavano nei riti del raccolto dei frutti di una terra sempre generosa e schietta.
Era festa quando insieme si facevano il pane e le focacce, era festa quando si uccideva il maiale (non per il povero animale ovviamente) e le donne tutte insieme preparavano salsicce, soppressate e altre cose buone.
Era festa la primavera con i suoi colori infiniti e gli alberi col vestito nuovo. Era festa la mezza estate con gli incontri e i balli nelle aie e i tanti frutti.

Ma la festa più bella per tutti era il 25 aprile, Festa della Liberazione. Questa ricorrenza era amata non solo dalla famiglia, ma dall’intera contrada; gli abitanti si ritrovavano ogni anno nel piazzale del piccolo centro rurale per festeggiare insieme la liberazione dell’Italia dai nazifascisti. La festa era organizzata dal signor Renato, un ex partigiano, da altri della sezione dell’Anpi e anche da molti ragazzi.
Naturalmente ogni festa che si rispetti deve essere onorata da un pranzo degno della ricorrenza. Nino aveva sempre sognato una tavola molto ricca, non proprio come quelle, viste in qualche film, traboccanti di ogni genere di cibi che le famiglie americane preparavano per la loro festa del ringraziamento; una tavola degna di un imperatore sulla quale troneggiava un tacchino gigantesco e ben rosolato. Nino si sarebbe accontentato di un qualcosa che si potesse almeno avvicinare a quelle abbondanti tavolate. Per questo aveva deciso di assegnare il ruolo di protagonista della tavola festiva a un bel gallo dalle penne vermiglio e oro. Grande, altero, ritto, con cresta e bargigli degni di quel capo che era stato per tutta la sua lunga carriera e che ogni mattina aveva avvisato l’intera contrada dell’approssimarsi dell’aurora. I galli erano troppi, qualcuno bisognava sacrificarlo sull’altare della buona tavola e lasciare spazio a quelli più giovani che scalciavano nel desiderio di giungere finalmente alla guida dell’affollato pollaio o, comunque, assumere una posizione di vertice ben riconosciuto dalle tante galline.
Il povero animale designato nel ruolo di protagonista indiscusso delle varie portate del pranzo non era per nulla disposto ad assecondare un progetto, neanche minimamente condiviso, che contemplava il rapido epilogo della sua breve esistenza, a opera di una lama affilata nella gola, finalizzato ad arricchire la tavola del pranzo di un giorno di festa. Decise, quindi, di vendere cara la pelle quando Nino comincio a girargli intorno con fare sospetto, troppo sospetto, troppo simile alle altre volte il cui epilogo era immancabilmente la sparizione di qualche abitante del pollaio.
In questi casi anche Rocco era combattuto tra due sentimenti contrastanti: il dispiacere per la sorte del povero gallo, da una parte, e il piacevole pensiero delle buone cose che avrebbe preparato la mamma, e gustate il giorno dopo, dall’altra.
Padre e figlio si recarono nell’aia con l’intenzione, non più discutibile, di porre termina alla carriera di re del pollaio al pennuto destinato da una volontà superiore a sostituire con onore sulla tavola contadina il tacchino ben guarnito delle sontuose tavole americane del giorno del ringraziamento.
Il deciso disaccordo del bel gallo apparve immediatamente in tutta la sua evidenza. Il povero bipede non si lascio irretire dalle dolci lusinghe di Nino.
«Vieni bel galletto, vieni dal tuo padrone che tanto ti ammira» diceva mentre gettava delle manciate di frumento o di orzo «vieni bel gallo».
Ma tutti i tentativi di risolvere diplomaticamente la faccenda naufragarono miseramente di fronte al cocciuto diniego del pollastro che non la finiva di spiccare dei salti mai tentati in alto, molto in alto, e che mai Rocco aveva avuto modo di veder fare da nessun pennuto conosciuto. Il gallo vermiglio e oro piroettava, allargava le ali, apriva la coda, fuggiva, fintava, si scagliava contro il tiranno assalitore, svolazzava, caricava, beccava violentemente qualunque cosa accennasse a muoversi nel suo campo visivo; nella foga beccò finanche una sua zampa senza, per questo, accennare a una qualche forma di lamentela. Insomma, non voleva rassegnarsi al fatto che quel giorno aveva cantato l’ultima
volta il suo saluto all’alba. In una vita precedente doveva essere stato un fiero toro da corrida, e cosi caricava, caricava senza sosta. Continuava a caricare alla stregua di un cavaliere medioevale a difesa della gentil donzella, pardon, gentil gallina, con il possente becco a fungere da lancia, arma appuntita per trapassare il vile assalitore. In una delle tantissime cariche sferro, al crudele sterminatore di pennuti pacificamente domestici, un colpo secco proprio al centro della nocca del dito medio della mano destra. Il dolore fu lancinante, penetrante, sconvolgente, tutto concentrato su pochi millimetri di pelle e nervi, i quali immediatamente si fecero carico di trasmettere il malessere profondo, acuto e paralizzante al cervello, che organizzo immediatamente un’azione di distrazione nel trasmettere a Nino la visione di tutte le stelle dell’emisfero australe e anche di quello boreale, ma mentre Nino cercava di distinguere l’Orsa Minore dal Cane Maggiore, si inginocchio sopraffatto dal dolore.
Ci vollero due ore affinché il persecutore di pollastri riuscisse a sopraffare la strenua resistenza del sovrano del pollaio, il cui mandato di capo del pollaio doveva concludersi come deciso. E si concluse non senza che gli venissero concessi tutti gli onori.

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