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31 marzo 2020

da La biblioteca di Babele - Jorge Luis Borges.

La sala degli specchi di Maria Carolina, Reggia . Caserta
da La biblioteca di Babele - Jorge Luis Borges.

All’Hotel de Adrogué, tra i caprifogli effusivi e il fondo illusorio degli specchi, sussiste ancora un qualche ricordo limitato e decrescente di Herbert Ashe, ingegnere dei Ferrocarriles del Sur. In vita, come tanti inglesi, aveva patito d’irrealtà; morto, non è nemmeno più il fantasma che era stato. Alto, disincantato, la sua stanca barba rettangolare era stata rossa. Pare che fosse vedovo, senza figli. Ogni anno o due andava in Inghilterra: per visitare (a quanto giudico da fotografie che ci mostrò) una meridiana e alcuni roveri.
Mio padre aveva stretto con lui (ma il verbo è eccessivo) una di quelle amicizie inglesi che cominciano con l’escludere la confidenza e prestissimo omettono la conversazione; solevano scambiarsi libri, e periodici; solevano affrontarsi, taciturnamente, agli scacchi… Lo ricordo nell’atrio dell’albergo, con un libro di matematica in mano, guardando a volte i colori irrecuperabili del cielo. Una sera, stavamo parlando del sistema di numerazione duodecimale (in cui il dodici si scrive dieci); Ashe mi disse che stava traducendo non so che tavole duodecimali in tavole sessagesimali (in cui sessanta si scrive dieci). Aggiunse che questo lavoro gli era stato affidato da un norvegese a Rio Grande do Sul. Otto anni che lo conoscevamo, e non ci aveva mai detto di essere stato laggiù… Parlammo di vita pastorale, di capangas, dell’etimologia brasiliana della parola gaucho (che alcuni vecchi dell’est pronunciano ancora gaúcho), e non fu più questione - Dio mi perdoni - di funzioni duodecimali. Nel settembre 1937 (noi non eravamo in albergo), Herbert Ashe morì della rottura di un aneurisma. Giorni prima aveva ricevuto dal Brasile un pacchetto sigillato e raccomandato. Era un libro in ottavo grande. Ashe l’aveva lasciato al bar, dove - mesi dopo - lo ritrovai. Mi misi a sfogliarlo e provai una vertigine stupita e leggera, che non descriverò, perché questa non è la storia delle mie emozioni ma la storia di Uqbar, di Tlön e dell’Orbis Tertius. In una notte dell’Islam che chiamano la Notte delle Notti, si spalancano le porte del cielo e l’acqua si fa più dolce nelle brocche; se queste porte, allora, si fossero aperte, non avrei provato quello che provai. Il libro era scritto in inglese ed era di 1001 pagine. Sulla gialla sua costola di cuoio lessi queste parole, che il frontespizio ripeteva: A First Encyclopaedia of Tlön. Vol. XI Hlaer to Jangr. Non v’era data né luogo di pubblicazione. La prima pagina e la velina d’una delle tavole portavano un timbro ovale, turchino, con questa iscrizione: Orbis Tertius.
Due anni prima, nelle pagine d’una enciclopedia plagiaria, avevo scoperto la sommaria descrizione d’un falso paese; ora il caso mi recava qualcosa di più prezioso e più arduo. Avevo tra mano, ora, un frammento vasto e metodico della storia totale d’un pianeta sconosciuto, con le sue architetture e le sue guerre, col terrore delle sue mitologie e il rumore delle sue lingue, con i suoi imperatori e i suoi mari, con i suoi minerali e i suoi uccelli e i suoi pesci, con la sua algebra e il suo fuoco, con le sue controversie teologiche e metafisiche. E tutto ciò articolato, coerente. senza visibile intenzione dottrinale o parodica.

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