4 aprile 2020

da La biblioteca di Babele - Jorge Luis Borges

Napoli, Palazzo Reale
da La biblioteca di Babele - Jorge Luis Borges

Poscritto del 1947
Ho riprodotto l’articolo precedente come apparve nell’Antologia de la literatura fantástica 1940, senz’altra esclusione che di alcune metafore e d’una specie di riassunto burlesco che oggi risulterebbe fuori di luogo. Sono accadute tante cose da allora… Mi limiterò a farne cenno. Nel marzo 1941, in un libro di Hinton che era appartenuto a Herbert Ashe, si trovò una lettera manoscritta di Gunnar Erfjord. La busta recava il timbro postale di Ouro Preto; la lettera chiariva interamente il mistero di Tlön. Il suo testo conferma le ipotesi di Martínez Estrada. La splendida storia cominciò una notte di Lucerna o di Londra, al principio del secolo XVII. Una società segreta e benevola (che contò tra i suoi affíliati Dalgarno, e poi George Berkeley) sorse per inventare un paese. Nel vago programma iniziale figuravano gli “studi ermetici”, la filantropia e la cabala. A questo primo periodo risale il curioso libro di Andreä. In capo ad alcuni anni di conciliaboli e di sintesi premature, si comprese che una generazione non bastava per articolare un paese. Si decise che ciascuno dei maestri che formavano la società si sarebbe scelto un discepolo per la continuazione dell’opera. Questo ordinamento ereditario venne osservato. Poi, dopo uno iato di due secoli, la confraternita risorge in America. Nel 1824, a Memphis (Tennessee) uno degli affiliati parla con l’ascetico milionario Ezra Buckley. Quest’ultimo lo sta a sentire con un certo sprezzo e si ride della modestia del progetto. Dice che in America è assurdo inventare un paese e propone l’invenzione di un pianeta. A questa idea gigantesca ne aggiunge un’altra, figlia del suo nichilismo[6]: quella di mantenere il silenzio sull’enorme impresa. Circolavano allora i venti volumi della prima Encyclopaedia Britannica; Buckley suggerisce un’enciclopedia metodica del pianeta illusorio. Lascerà al pianeta i suoi filoni auriferi, i suoi fiumi navigabili, le sue praterie solcate dal toro e dal bisonte, i suoi negri, i suoi postriboli e i suoi dollari, ma a una condizione: “L’opera non patteggerà con l’impostore Gesù Cristo”. Buckley nega Dio, ma vuole dimostrare al Dio inesistente che gli uomini mortali sono capaci di concepire un mondo. Buckley muore avvelenato a Baton Rouge, nel 1828. Nel 1914 la società rimette ai suoi collaboratori, che sono trecento, l’ultimo volume della prima Encyclopaedia di Tlön. La pubblicazione resta segreta: i suoi quaranta volumi (l’opera più vasta che mai si sia compiuta dagli uomini) dovranno servire di base a una altr’opera più minuziosa, redatta non più in inglese, ma in una delle lingue di Tlön. Questa revisione di un mondo illusorio si chiama provvisoriamente Orbis Tertius, e uno dei suoi modesti demiurghi fu Herbert Ashe, non so se come agente di Gunnar Erfjord o come affiliato. Il fatto che egli ricevesse l’“undicesimo volume” sembra favorire la seconda ipotesi. Ma gli altri volumi? A cominciare dal 1942, i fatti si moltiplicarono. Ricordo con singolare nettezza uno dei primi, e mi pare che sentii qualcosa del suo carattere premonitore. Accadde in un appartamento della via Laprida, dinanzi a un chiaro e alto balcone aperto sul tramonto. La principessa de Faucigny Lucinge aveva ricevuto da Poitiers il suo vaseIlame d’argento. Dal vasto fondo di un cassone costellato di etichette internazionali, venivano tratti alla luce oggetto fini e immobili: argenteria di Utrecht e di Parigi con una dura fauna araldica, un samovar. Tra il vasellame -con un percettibile e tenue tremore di uccello addormentato - palpitava misteriosamente una bussola. La principessa non la riconobbe. L’ago turchino anelava al nord magnetico; la cassa di metallo era concava; le lettere del quadrante erano d’uno degli alfabeti di Tlön. Fu questa la prima intrusione del mondo fantastico nel mondo reale. Della seconda, per un caso che m’inquieta, fui ancora testimone io stesso. Accadde alcuni mesi dopo, nel bazar di un brasiliano, alla Cuchilla Negra. Amorim e io tornavamo da Sant’Anna. Una piena del fiume Tacuarembò ci obbligò a provare (e a sopportare) quella rudimentale ospitalità. Il brasiliano ci sistemò due brande cigolanti in uno stanzone ingombro di botti e di cuoiami. Ci coricammo, ma ci tennero svegli fino all’alba le escandescenze d’un vicino invisibile, che pareva ubriaco e alternava bestemmie inestricabili con frammenti di canzoni lamentose: o meglio, con frammenti d’una sola canzone lamentosa. Com’è naturale attribuimmo quell’insistente baccano all’amicizia del padrone per il proprio vino… Ma all’alba, trovammo l’uomo morto nel corridoio. L’asprezza della sua voce ci aveva ingannato: era appena un ragazzo. Nel delirio, gli erano cadute dalla cintura alcune monete e un cono di metallo lucente, del diametro di un dado. Un bambino, che volle raccogliere questo cono, non ci riuscì. Un uomo lo sollevò, ma con gran fatica. Io lo tenni in mano per alcuni minuti e ricordo il suo peso intollerabile, che perdurò anche dopo che l’ebbi lasciato. Ricordo anche il cerchio preciso che mi scolpì sul palmo. Il fenomeno d’un oggetto cosi piccolo, e nello stesso tempo così pesante, lasciava un’impressione spiacevole, di sgomento e di paura. Un contadino propose di gettarlo nel fiume tumultuoso. Amorim lo acquistò per pochi pesos. Nessuno sapeva nulla del morto, tranne che “veniva dalla frontiera”. Questi coni piccoli e pesantissimi (fatti d’un metallo che non è di questo mondo) sono l’immagine della divinità in certe religioni di Tlön.

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