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7 giugno 2020

Ode al dente di capodoglio – Pablo Neruda



dipinto di Bo Bartlett
Ode al dente di capodoglio – Pablo Neruda

Dal mare venne qualche giorno
trasudando
esistenza,
sangue, sale, ombra verde,
onda che insanguinò la caccia,
schiuma accoltellata
dall’erotica forma
del suo padrone:
ballo
degli
oscuri,
densi,
monasteriali
capodogli
nel sud dell’oceano
del Cile.
Alto
mare
e marea,
latitudini
del più lontano
freddo:
l’aria
è una
coppa
di
chiarezza gelata
da
dove
corrono
le ali
dell’albatros
come sci del cielo.

Sotto
il mare
è una
torre
sgretolata e costruita,
un tegame in cui bollono
grandi onde di piombo,
alghe che sopra
il lombo delle acque
scivolano
come brividi.
Improvvisamente sopraggiungono
la bocca
della vita
e della morte:
la volta
del semisommerso
capodoglio,
il cranio
delle profondità,
la cupola
che
sopra
l’onda alza
il suo morso,
tutta
la sua
segheria sottomarina.

Si incidono, scintillano
le braci di avorio,
l’acqua
inonda
quell’atroce sorriso,
mare e morte navigano
vicini
alla nave scura che socchiude
come una cattedrale la sua dentatura.
E quando la coda
inferocita
cadde come palma
sopra l’acqua,
l’animale
uscito dall’abisso
ricevette
la scintilla
dell’uomo piccolino
(l’arpione
diretto
dalla mano bagnata
del cileno).

Quando
ritornò
dai
mari,
del suo sanguinoso giorno,
il marinaio
su uno
dei denti
della bestia
incise col suo coltello
due ritratti: una
donna e un uomo
che si congedano,
un navigante
dall’amore
ferito,
una sposa sulla prua
dell’assenza.

Quante
Volte toccò il mio cuore, la mia mano,
quella
luna
di miele
marina
disegnata
sul dente.
Come amai
la corolla
del
doloroso
amore
scritta
sull’avorio
della balena
carnivora,
di capodoglio pazzo.

Soave
linea
del
bacio
fuggitivo,
pennello
di fiore marino
tatuato
sul muso
dell’onda,
sulla fauce terribile
dell’oceano,
sulla scimitarra
scatenata
dal-
le tenebre:

stampato
il canto
del-
l’amore errante,
l’addio
delle
zagare,
la nebbia,
la luce
di quella
alba
bagnata
dalle tempestose lacrime
di aurora baleniera.

Oh amore,

alle labbra
del mare,
condizionato
da
un
dente
dell’onda,
col
rumore
di
un
petalo
generico
(sussurro di ala rotta
tra l’intenso
odore
dei gelsomini)
(amore
di hotel
socchiuso, oscuro,
con edere legate
al tramonto),
(e un bacio
duro come
pietra che assale),
poi
tra bocca e bocca
il mare
eterno,
l’arcipelago,
il collare delle
isole
e le navi
circondate
dal freddo,
attendendo
l’animale azzurro
dalle profondità
australiane
dell’oceano,
l’animale nato
dal diluvio
con la sua ferramenta
di zaffiri.

Ora qui riposa
sopra la mia tavola e davanti
alle acque di marzo.
Già ritorna
al grembo sabbioso della costa,
il vapore dell’autunno, la lampada
perduta,
il cuore di nebbia.
E il dente della bestia,
tatuato dalle dita delicate
dell’amore,
è la più piccola nave
di avorio che ritorna.
Già le vite
dell’uomo ei suoi amori,
il suo arpione sanguinante, tutto
che fu carne e sale, aroma e oro,
per lo sconosciuto marinaio
nel mare della morte si fece polvere.
E solamente della sua vita
rimase il disegno
fatto
dall’amore
sul dente terribile
e il mare, il mare
palpitante,
uguale a ieri, che apre
il suo ventaglio di ferro,
che scioglie e lega
la rosa sommersa
della sua schiuma,
la sfida
del suo va e vieni eterno

1956

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