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23 luglio 2020

da “La guerra dei poveri” – Nuto Revelli



da “La guerra dei poveri” – Nuto Revelli

22 gennaio. Alle 4 sveglia. C’incolonniamo con il battaglione. Incontro Melazzini, è malridotto, ha il naso giallo, congelato. Alessandria, il comandante della Cct (Compagnia comando Tirano), in gamba come sempre, fa distribuire il caffè ai suoi uomini. Riesco a berne un sorso.
Alle 5.30 riprendiamo il cammino. Colonne affiancate, sbandati tedeschi, italiani, ungheresi che s’infilano tra i reparti. Dopo tre ore di marcia, su un’interminabile piana, sostiamo per un attimo. solo noi stiamo fermi, fuori dalla pista, mentre le colonne continuano a rotolare. A due passi, un capitano anziano tende le mani, come se chiedesse l’elemosina: trema e piange. «Salvatemi, fatelo per i miei figli, per i miei bambini, salvatemi». Mi fa pena, fa pena anche agli altri. migliaia di uomini gli sono passati accanto, ignorandolo. Il nostro medico, il dottor Chiappa, lo sistema su una slitta.
Con la sosta il Tirano si è tagliato fuori, ha perso terreno, e non riesce a reinserirsi nelle colonne. Fuori pista non si può marciare. Maccagno tenta di arrestare i tedeschi, prepotenti come sempre: imbraccia un fucile mitragliatore con decisione e Perego, generoso e instancabile, gli dà man forte. Così riusciamo finalmente a sfilare.
Sulla sinistra un’oasi di poche isbe, sostano i quattro carri armati tedeschi, i soli mezzi corazzati che accompagnano l’immensa colonna della ritirata. Lontano, all’orizzonte, una bassa cresta. Si dice che sia lassù la linea tedesca e si spera. È sempre così: quando appare un ciglio lontano o una valle si spera. Sempre così, per centinaia di chilometri.
Anche i più disperati sperano: con i piedi in cancrena, con gli occhi chiusi dal congelamento, con pallottole e schegge nelle gambe e nei fianchi, vanno avanti piegati in due, le braccia penzoloni, trascinandosi sulla neve, cadendo e rialzandosi, ma vanno avanti, perché sperano nella linea tedesca.
Qui dove tutto è morte, dove basta un niente, una distorsione a un piede, una diarrea, e ci si ferma per sempre, il desiderio di vivre è immenso. Camminare vuol dire essere ancora vivi, fermarsi vuol dire morire. A centinaia sono stesi lungo la pista, gli sfiniti, i dissanguati; non li degniamo di uno sguardo, sono cose morte; passiamo correndo. I vivi, poiché molti sono ancora vivi, sentono la colonna che urla, che passa, che marcia verso la liberazione, e tentano di seguirci, magari strisciando, come se la linea tedesca fosse lì, a quattro passi.
Pochi, soltanto pochi dei disperati, arrivano fino a un villaggio e poi sostano, attendendo l’arrivo dei russi, alzeranno le braccia e saranno salvi, poiché i russi non ammazzano gli italiani. Alcuni alpini della 46, catturati dalle pattuglie corazzate che operano alle spalle delle nostre colonne, vennero disarmati. «Italianskij charoš: čikaj», gridarono i russi indicando la strada verso ovest, e gli alpini tornarono al reparto. Per i tedeschi, invece, nessuna pietà: tanti ne prendono, tanti ne ammazzano.
La marcia continua, fra urla e spinte; a tratti si corre per non essere tagliati fuori. Marcia maledetta. Basta perdere per un attimo il collegamento, perché masse di sbandati e colonne s’inseriscano e creino scompiglio. Allora per la compagnia o la parte di battaglione tagliata fuori non ci sarà più nulla da fare fino alla prossima sosta, si marcerà da isolati, a volte ritrovando il reparto proprio nell’attimo che precede un combattimento.
In pieno giorno arriviamo in una vasta conca dove trentamila uomini attendono via libera. È una massa nera e profonda che sente la vicinanza dei russi: attende che apriamo un varco.

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