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16 giugno 2015

Ovidio - Eroidi. Arianna a Teseo

Omar Ortiz - Genesis
Ovidio - Eroidi. Arianna a Teseo 

La donna che tu, malvagio Teseo, hai abbandonato alle belve vive ancora, e tu vorresti accettare questo fatto con indifferenza? Ho trovato ogni specie di fiera meno spietata di te: non avrei potuto essere affidata a nessuno peggio che a te! Ciò che leggi, Teseo, te lo invio proprio da quella spiaggia da dove le vele hanno portato via la tua nave, senza di me; su questo lido il sonno mi ha perfidamente ingannata e anche tu lo hai fatto, che hai insidiato il mio sonno con una azione malvagia. Era l'ora in cui la terra inizia ad essere coperta da un strato di brina, come di vetro e gli uccelli, al riparo delle fronde, emettono il loro canto lamentoso; non ancora del tutto sveglia, illanguidita dal sonno, sollevandomi appena mossi le mani per toccare Teseo: non c'era nessuno! Ritraggo le mani e riprovo una seconda volta, e muovo le braccia per tutto il letto: non c'era nessuno. La paura scacciò il sonno; in preda al terrore mi alzo ed il mio corpo si precipita fuori dal letto vuoto. Subito il mio petto risuonò, percosso dalle mani; mi strappai i capelli così com'erano, ingarbugliati dal sonno. C'era la luna; scruto se vedo qualcosa oltre alla spiaggia; ma i miei occhi non riescono a scorgere nulla oltre alla spiaggia. Corro disordinatamente ora qua e ora là, in ogni direzione. La sabbia fonda ostacola il mio passo di fanciulla. Intanto mentre gridavo per tutta la spiaggia "Teseo!", le rocce dalle loro cavità mi rimandavano indietro il tuo nome e quante volte ti chiamavo, altrettante il luogo stesso chiamava; anche il luogo voleva recare aiuto a me sventurata. C'era un monte; sulla sua cima si vedono cespugli isolati; di lì si protende uno scoglio corroso dalle onde fragorose. Vi salgo; la volontà mi dava la forza; e così misuro con lo sguardo per ampio tratto la profonda distesa del mare. Di lì - anche i venti infatti furono crudeli con me - vidi delle vele tese dal soffio impetuoso di Noto. O le vidi o erano tali che credetti di averle viste; rimasi più gelida del ghiaccio e semisvenuta. Ma il dolore non mi permette di rimanere a lungo inerte, mi ridesta, mi ridesta e chiamo Teseo ad altissima voce "Dove scappi?", grido. "Torna indietro, Teseo scellerato! Volgi la nave! Non è al completo!". Così gridavo. Quanto mancava alla voce, lo compensavo col rumore dei colpi al petto; e i colpi si mescolavano alle mie parole. Agitando le mani feci ampi segni perché, se tu non potevi udirmi, mi potessi almeno vedere; applicai poi ad un lungo bastone un candido velo, per richiamare l'attenzione di chi certamente si era dimenticato di me. Ma ormai ti eri sottratto alla mia vista. Allora finalmente piansi: prima le mie morbide guance erano irrigidite per il dolore. Che cosa avrebbero dovuto fare i miei occhi se non piangere sulla mia sorte, dopo aver perso di vista le tue vele? Vagai solitaria con i capelli sciolti come una baccante invasata dal dio ogigio, oppure sedetti come di ghiaccio su di una roccia, guardando fisso il mare e, seduta sulla pietra, anch'io rimasi impietrita. Spesso ritorno al letto che ci aveva accolti entrambi e che non ci avrebbe più offerto accoglienza e tocco - è quello che posso, ora che tu mi manchi - le tue impronte e le coperte che avevano ricevuto il calore del tuo corpo. Piombo sul letto inzuppato dalle lacrime versate e grido: "In due ti abbiamo occupato, facci tornare due! Siamo giunti qui in due, perché non siamo in due ad andarcene? Letto traditore, dov'è la parte più importante di noi due?". Cosa fare? Dove andare da sola? L'isola è selvaggia, non vedo segni dell'attività di uomini, né del lavoro di buoi. Il mare circonda la terra da ogni lato; da nessuna parte un marinaio, nessuna nave prossima a passare per queste rotte insidiose. Mettiamo che mi vengano dati compagni e venti e una nave: perché dovrei seguirli? La terra di mio padre mi nega l'accesso. E se io avessi la fortuna di solcare su di una nave il mare tranquillo ed Eolo moderasse i venti, resterò sempre un'esule. Non riuscirò più a vederti, o Creta, costellata da cento città, terra conosciuta da Giove bambino. Mio padre, infatti, e la terra governata con giustizia da mio padre, nomi a me cari sono stati traditi dal mio gesto, quando ti diedi il filo che guidasse i tuoi passi, perché tu, vincitore, non trovassi la morte nel tortuoso palazzo. Allora mi dicevi: "Giuro su questi stessi pericoli, che sarai mia finché entrambi vivremo". Viviamo, e non sono tua, Teseo, se solo è viva una donna, sepolta dall'inganno di un traditore. Avresti dovuto uccidere anche me, malvagio, con la clava con la quale uccidesti mio fratello! La promessa che mi avevi fatto sarebbe stata sciolta dalla mia morte. Ora io mi raffiguro non soltanto ciò che dovrò soffrire, ma tutto quello che può soffrire una donna abbandonata. Mi si affollano alla mente mille immagini di morte, e la morte è pena minore dell'attesa della morte. Immagino che fra poco arriveranno di qua o di là i lupi a straziarmi le viscere con denti voraci. Questa terra nutre forse anche fulvi leoni? Chi sa mai che quest'isola ... anche tigri feroci? E si dice che il mare getti sulla riva enormi foche. Chi può impedire alle spade di trafiggermi il fianco? Soltanto non mi accada di essere legata come prigioniera da una dura catena e di dover filare con mano di schiava grandi quantità di lana; io ho Minosse come padre, come madre la figlia di Febo e, cosa che ricordo più di tutto, fui legata a te da una promessa. Se guardo il mare, la terra, e la distesa della spiaggia, molti pericoli minaccia la terra, molti il mare. Mi restava il cielo; temo le apparizioni degli dèi; mi sento abbandonata come preda e cibo per le belve voraci. Se degli uomini abitano qui e coltivano la terra, non mi fido di loro; ho imparato sulla mia pelle a temere gli uomini stranieri. Oh se Androgeo fosse ancora in vita, e tu, terra di Cecrope, non avessi espiato le tue azioni scellerate con la morte dei tuoi figli; la tua mano, Teseo, levatasi in alto non avesse ucciso con la clava nodosa l'essere in parte uomo ed in parte toro; e io non ti avessi consegnato il filo che ti indicasse la via del ritorno, quel filo via via raccolto dalle tue mani, che lo tiravano a sé! Non mi meraviglio proprio se la vittoria sta dalla tua parte ed il mostro, abbattuto, coprì la terra di Creta. Un cuore di ferro non poteva essere trafitto dalle sue corna; anche se non ti riparavi, il tuo petto era al sicuro. Tu lì portavi la selce, lì portavi l'acciaio, lì hai Teseo, che vince in durezza le selci. Sonno crudele, perché mi hai tenuta nell'incoscienza? Ma, una volta per tutte, doveva calare su di me il sonno eterno. Anche voi venti crudeli e troppo accondiscendenti e voi soffi pronti a farmi piangere; mano spietata che hai ucciso me e mio fratello e fedeltà, parola vuota, promessa a colei che la chiedeva; il sonno, il vento e la fedeltà congiurarono contro di me: tre cause hanno tradito una sola fanciulla. Così, in punto di morte, non vedrò le lacrime di mia madre né ci sarà chi chiuda con le dita i miei occhi, la mia anima infelice se ne andrà nell'aria verso un mondo sconosciuto e nessuna mano amica cospargerà di unguenti le mie membra esanimi. Gli uccelli marini si poseranno sulle mie ossa insepolte: questa è la sepoltura degna dei miei meriti. Entrerai nel porto di Cecrope, e quando, accolto dalla patria, sarai là in alto onorato dal tuo popolo e racconterai compiutamente l'uccisione del toro-uomo, del palazzo di pietra, attraversato da corridoi insidiosi, racconta anche di me, abbandonata in una terra deserta: io non devo essere sottratta ai tuoi titoli di gloria! Tuo padre non è Egeo, e tu non sei nato da Etra, figlia di Pitteo; ti hanno generato rocce e flutti. Oh, se gli dèi avessero consentito che tu mi scorgessi dall'alto della nave, il mio aspetto dolente ti avrebbe commosso. Guardami bene anche ora, non con gli occhi, ma con l'immaginazione, con cui puoi, mentre me ne sto attaccata ad uno scoglio, battuto dal moto delle onde; guarda i capelli sciolti, segno di dolore, e la tunica appesantita dalle lacrime, come da pioggia! Il mio corpo trema, come le spighe battute dai venti del nord, ed i caratteri, tracciati dalla mia mano tremante, sono incerti. Io non ti supplico in nome dei miei benefici, perché hanno ottenuto un cattivo risultato; nessuna gratitudine mi sia dovuta per il mio operato, ma neppure una punizione. Se non sono io la causa della tua salvezza, non c'è tuttavia ragione perché tu sia per me causa di morte. Queste mani stanche di percuotere il mio petto colmo di mestizia, io, infelice, protendo verso di te al di là del vasto mare; ti mostro, affranta, questi capelli che mi sono rimasti; ti prego, per queste mie lacrime dovute alle tue azioni: volgi la tua nave, Teseo, e torna indietro al mutare del vento; se io sarò morta prima, tu, almeno, raccoglierai le mie ossa.

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