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11 gennaio 2016

Dialoghi con Leucò 18. Il lago - Cesare Pavese

La morte di Ippolito - Jean Baptiste Lemoyne the Elder  
Dialoghi con Leucò 18. Il lago - Cesare Pavese 
 
Ippolito, cacciatore vergine di Trezene, morì di mala morte per dispetto di Afrodite. Ma Diana, resuscitatolo, lo trafugò in Italia (l'Esperia) sui monti Albani dove lo adibì al suo culto, chiamandolo Virbio. Virbio ebbe figli dalla ninfa Aricia. Per gli antichi l'Occidente - si pensi all'Odissea - era il paese dei morti.
 (parlano Virbio e Diana)

Virbio. Ti dirò che venendoci mi piacque. Questo lago mi parve il mare antico. E fui lieto di viver la tua vita, di esser morto per tutti, di servirti nel bosco e sui monti. Qui le belve, le vette, i villani non san nulla, non conoscono che te. E' un paese senza cose passate, un paese dei morti.
Diana. Ippolito...
Virbio. Ippolito è morto, tu mi hai chiamato Virbio.
Diana. Ippolito, nemmeno morendo voi mortali scordate la vita?
Virbio. Senti. Per tutti sono morto e ti servo. Quando tu mi hai strappato all'Ade e ridato alla luce, non chiedevo che di muovermi, respirare e venerarti. Mi hai posto qui dove terra e cielo risplendono, dove tutto è sapido e vigoroso, tutto è nuovo. Anche la notte qui è giovane e fonda, più che in patria. Qui il tempo non passa. Non si fanno ricordi. E tu sola regni qui.
Diana. Sei tutto intriso di ricordi, Ippolito. Ma voglio ammettere un istante che questa sia terra di morti: che altro si fa nell'Ade se non riandare il passato?
Virbio. Ippolito è morto, ti dico. E questo lago che somiglia al cielo non sa nulla d'Ippolito. Se io non ci fossi, questa terra sarebbe ugualmente com'è. Pare un paese immaginato, veduto di là dalle nubi. Una volta - ero ancora ragazzo - pensai che dietro i monti di casa, lontano, dove il sole calava - bastava andare, andare sempre - sarei giunto al paese infantile del mattino, della caccia, del gioco perenne. Uno schiavo mi disse: " Bada a quel che desideri, piccolo. Gli dèi lo concedono sempre ". Era questo. Non sapevo di volere la morte.
Diana. Questo è un altro ricordo. Di che cosa ti lagni?
Virbio. O selvaggia, non so. Sembra ieri che aprii gli occhi quaggiù. So che è passato tanto tempo, e questi monti, quest'acqua, questi alberi grandi sono immobili e muti. Chi è Virbio? Sono altra cosa da un ragazzo che ogni mattina si ridesta e torna al gioco come se il tempo non passasse?
Diana. Tu sei Ippolito, il ragazzo che morì per seguirmi. E ora vivi oltre il tempo. Non hai bisogno di ricordi. Con me si vive alla giornata, come la lepre, come il cervo, come il lupo. E si fugge, s'insegue sempre. Questa non è terra di morti, ma il vivo crepuscolo di un mattino perenne. Non hai bisogno di ricordi, perché questa vita l'hai sempre saputa.
Virbio. Eppure il sito qui è davvero più vivo che in patria. C'è in tutte le cose e nel sole una luce radiosa come venisse dall'interno, un vigore che si direbbe non ancora intaccato dai giorni. Che cos'è per voi dèi questa terra d'Esperia?
Diana. Non diversa dalle altre sotto il cielo. Noi non viviamo di passato o d'avvenire. Ogni giorno è per noi come il primo. Quel che a te pare un gran silenzio è il nostro cielo.
Virbio. Pure ho vissuto in luoghi che ti sono più cari. Ho cacciato sul Dìdimo, corse le spiagge di Trezene, paesi poveri e selvaggi come me. Ma in questo inumano silenzio, in questa vita oltre la vita non avevo mai tratto il respiro. Cos'è che la fa solitudine?
Diana. Ragazzo che sei. Un paese dove l'uomo non era mai stato, sarà sempre una terra dei morti. Dal tuo mare e dalle isole ne verranno degli altri, e crederanno di varcare l'Ade. E ci sono altre terre più remote...
Virbio. Altri laghi, altri mattini come questi. L'acqua è più azzurra delle prùgnole tra il verde. Mi par di essere un'ombra tra le ombre degli alberi. Più mi scaldo a questo sole e mi nutro a questa terra, più mi pare di sciogliermi in stille e brusii, nella voce del lago, nei ringhi del bosco. C'è qualcosa di remoto dietro ai tronchi, nei sassi, nel mio stesso sudore.
Diana. Queste sono le smanie di quand'eri ragazzo.
Virbio. Non sono più un ragazzo. Conosco te e vengo dall'Ade. La mia terra è lontana come le nuvole lassù. Ecco, passo fra i tronchi e le cose come fossi una nuvola.
Diana. Tu sei felice, Ippolito. Se all'uomo è dato esser felice, tu lo sei.
Virbio. E' felice il ragazzo che fui, quello che è morto. Tu l'hai salvato, e ti ringrazio. Ma il rinato, il tuo servo, il fuggiasco che guarda la quercia e i tuoi boschi, quello non è felice, perché nemmeno sa se esiste. Chi gli risponde? chi gli parla? l'oggi aggiunge qualcosa al suo ieri?
Diana. Dunque, Virbio, è tutto qui? Vuoi compagnia?
Virbio. Tu lo sai ciò che voglio.
Diana. I mortali finiscono sempre per chiedere questo. Ma che avete nel sangue?
Virbio. Tu chiedi a me che cosa è il sangue?
Diana. C'è un divino sapore nel sangue versato. Quante volte ti ho visto rovesciare il capriolo o la lupa, e tagliargli la gola e tuffarci le mani. Mi piacevi per questo. Ma l'altro sangue, il sangue vostro, quel che vi gonfia le vene e accende gli occhi, non lo conosco così bene. So che è per voi vita e destino.
Virbio. Già una volta l'ho sparso. E sentirlo inquieto e smarrito quest'oggi, mi dà la prova che son vivo. Né il vigore delle piante né la luce del lago mi bastano. Queste cose son come le nuvole, erranti eterne del mattino e della sera, guardiane degli orizzonti, le figure dell'Ade. Solamente altro sangue può calmare il mio. E che scorra inquieto, e poi sazio.
Diana. A pigliarti in parola, tu vorresti sgozzare.
Virbio. Non hai torto, selvaggia. Prima, quando ero Ippolito, sgozzavo le belve. Mi bastava. Ora qui, in questa terra dei morti, anche le belve mi dileguano tra mano come nubi. La colpa è mia, credo. Ma ho bisogno di stringere a me un sangue caldo e fraterno. Ho bisogno di avere una voce e un destino. O selvaggia, concedimi questo.
Diana. Pensaci bene, Virbio-Ippolito. Tu sei stato felice.
Virbio. Non importa, signora. Troppe volte mi sono specchiato nel lago. Chiedo di vivere, non di essere felice.
 

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