Ernest Hemingway - L'ultimo safari di Rudy De Cadaval
I
festeggiamenti che si sono svolti a Key West, in Florida, e un po’
dappertutto negli Stati Uniti, per celebrare il centenario della nascita
di Ernest Hemingway (21 luglio 1899) hanno avuto più l’aria di una
sagra che di una commemorazione.
Gare
di pesca e concorsi di scrittura, un succedersi di letture e di grandi
bevute, al pari hemingwaiane, gare sportive, gadget, cotillon. Fan
stagionati e un po’ patetici si aggiravano sfoggiando barbe bianche a
l’ultimo Hemingway. Sarebbe piaciuta a lui come festa di compleanno?
Chissà. E gli sarebbe piaciuto ricevere in regalo il suo terzo romanzo
postumo Vero all’alba, cronaca, (vent’anni dopo Verdi collined’Africa),
di un safari con complicazioni amorose extraconiugali? Molti,
specialmente in America, hanno avuto da ridire su questa trovata del
figlio Patrick (curatore del manoscritto inedito), che però nella
prefazione ha messo le mani avanti: questo romanzo – diario incompiuto è
(un orsacchiotto per bambini), solo suo padre avrebbe potuto,
lavorandoci sopra, trasformarlo in un “orso orribile”. Ma, passando dal
romanzo allo scrittore, non è che lo stesso Hemingway da orso orribile è
diventato (classica parabola della fama) orsacchiotto per bambini (o
turisti, che è la medesima cosa)? Identico, per esempio, è il destino
toccato al safari, tipico rituale d’iniziazione hemingwaiano.
Nel libro postumo c’è almeno una frase da salvare: “In Africa, una cosa è vera all’alba e falsa a mezzogiorno”.
Cosa che si può forse dire anche di Hemingway oltre che dell’Africa.
Vero al principio, artefatto verso la fine! Cosa che può succedere a chi
diventa troppo famoso. La celebrità è una componente fondamentale per
cercare di capire Hemingway. Lui, certo, non fece nulla per sfuggirle ma
non si può nemmeno sostenere che sia andato a cercarla con la
trepidazione di chi ha ambizioni spaiate al talento. Era semplicemente
un eccellente scrittore e un personaggio. Bisogna esserne capaci.
Il primo a rendersi conto della qualità del giovanissimo Hemingway fu il nonno.“Con un’immaginazione del genere, o diventa famoso, o finisce in galera”,
pare sia stato il commento del vegliardo a una spudorata bugia del
nipote. Il rischio di finire in galera lo correrà in diverse occasioni,
più per eccessi alcolici che non per veri reati, la fama invece l’ha
centrata in pieno, come nessun altro scrittore del Novecento. Di suo ha
lasciato uno stile e un’impronta letteraria che sopravvivranno al
personaggio, naturalmente e clamorosamente, legato a un’epoca. Perché
Ernest Hemingway era un personaggio più per necessità artistica che per
vocazione personale, lui, un ragazzone così pudico e talmente puritano
da non essere capace di innamorarsi di una donna senza doverla poi
sposare, un timido che faceva il duro e aveva paura soltanto di non
sapersi dimostrare abbastanza uomo. Nell’espressione aperta del suo
faccione si esprimeva il meglio della fisionomia e del mito americani:
la generosità, l’energia e quel senso di giustizia che lo faceva
avvicinare al solitario della festa per offrirgli un drink. a tutto
questo univa la predisposizione a risolvere a cazzotti le faccende se
trovava qualcuno antipatico. Chi aveva voglia di guardare dentro a tanta
esibizione vi leggeva un fondo di coraggio disperato, una sfida
cosciente alla percezione del nulla che fa la verità dei suoi
personaggi, lui tra questi compreso. Il pubblico lo apprezzava per gli
stessi motivi che la maggior parte dei critici gli rimproverava:
somigliava troppo ai protagonisti delle sue storie, mescolava realtà e
finzione in un cocktail letterario dal gusto riconoscibilmente popolare.
Lo scrittore più apprezzato nei bar, commentavano i più perfidi. Per
arrivare a uno stile così facilmente riconoscibile da inaugurare un
aggettivo, aveva faticato parecchio sulla pagina, a partire dagli esordi
come giornalista dello Star di Kansas City. Qui un oscuro quanto
benemerito caporedattore gli insegnerà i tre comandamenti del cronista
che Hemingway osserverà come articoli di fede letteraria: concisione,
leggibilità e soprattutto, scrivere soltanto di quel che si conosce.
Hemingway sarà sul posto nei momenti cruciali della nostra storia: primo
e secondo conflitto mondiale e guerra di Spagna. Era un autodidatta con
uno straordinario appetito di vita e di conoscenza. A Parigi, in mezzo
alla più fertile concentrazione di talenti del secolo scorso, fu prima
allievo e ben presto capoclasse di quella “lost generation” di cui
scriverà in Festa mobile la meno cordiale delle biografia.
Scambiava lezioni di tennis per lezioni di stile con Ezra Pound che
definì i suoi primi racconti: “la migliore prosa degli ultimi quarant’anni”.
James Joyce, John Dos Passos, Francis Scott Fitzgerald e Eliot saranno i
suoi compagni di bevute e di discussioni, due campi dove dimostrerà
capacità colossali. A Parigi conosce la stagione migliore, circondato
dagli amici, dalle donne e dai primi adescamenti della celebrità.
Piegando un poco la realtà nel verso dello spettacolo, la stampa e il
pubblico cominciavano a fare di lui un personaggio hemingwaiano,
un’atleta della letteratura e star della vita mondana. Di tutto questo
se ne curava poco, teneva a una disciplina cartesiana: dalle sette del
mattino a mezzogiorno al tavolo di lavoro, per avere poi licenza di
dissiparsi fino a notte nell’avventura di esistere. Non chiedeva alla
letteratura di far tornare i conti con la vita, ma pretendeva che la
parola scritta avesse fisicità, l’economia espressiva di un gesto
vitale. “La parte omessa rafforza la storia”, ribadiva a quei
critici che nella sua insofferenza per le subordinate non ci vedevano
altro che un’atrofia del pensiero pensante. E’ un’arte dell’elisione che
arriva a volte a tagliare il finale della storia, come in una delle sue
primissime short story:Fuoristagione, che è la straordinaria
narrazione dell’ultimo giorno di un alcolizzato e dei suoi inutili
tentativi di depistare l’angoscia. Il racconto si ferma un attimo prima
del suicidio, la conclusione è implicita, scritta nel movimento delle
cose, e dunque non necessaria (forse anche raccontando la sua biografia
bisognerebbe fermarsi un attimo prima del suicidio, appendice troppo
fragorosa: prima c’era già tutto). C’è già tutto Hemingway nei racconti
d’esordio, la parte migliore della sua opera (vero all’alba, appunto).
Dopo gli è anche successo di fare il verso a se stesso, come ne Il vecchio e il mare che gli varrà il Nobel. Nel riconoscimento prestigioso ci vedeva “una puttana che vuole sedurti per attaccarti una malattia incurabile”.
Hemingway
vecchio non si poteva immaginare. Conosceva un solo stile, il suo:
lavorare vicino alle corna del toro o a quello del rinoceronte. Quando
non ne sarà più capace proverà ancora a inventarsi cacciatore di belve e
pescatore di marlin, spia dell’F.B.I. a caccia di sottomarini tedeschi
lungo le coste cubane, ma bisogna dirlo, l’ultimo Hemingway è il meno
riuscito dei suoi personaggi. Pensando di fargli un regalo si potrebbe
cominciare col rispettare il più disatteso dei suoi desideri:”Vorrei che fosse presa in considerazione la mia opera piuttosto che le intemperanze della mia esistenza”.
Si scoprirebbe per esempio il molto di buono che è riuscito a combinare
con un vocabolario tra i più asciutti della storia della letteratura. E
anche per chi voglia leggere la storia dell’uomo Hemingway, conviene
riprendere in mano i suoi scritti: c’è dentro il furore di vivere e una
concentrazione essenziale attorno alla morte, in margine ai romanzi come
alla vita.
Rudy De Cadaval
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