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5 gennaio 2015

Il delirio del potere e il potere della poesia ne "I re" di Julio Cortàzar - Maria Grazia Fresu


IL DELIRIO DEL POTERE E IL POTERE DELLA POESIA
 NE “I RE” DI JULIO CORTÁZAR
di Grazia Fresu

   Quest’anno si celebrano i cento anni dalla nascita di Julio Cortazar e i cinquanta anni dal suo romanzo più famoso Rayuela. In tutto il mondo, ma soprattutto in Argentina, suo paese natale, e in Francia dove passò gli anni dell’esilio fino alla morte, numerose iniziative  ne analizzano la figura e l’opera. Molti sono stati gli interventi critici sulla sua scrittura. Ci è sembrato interessante, tra le tante possibilità,  analizzare la prima opera che il nostro firmò col suo vero nome, I Re, testo drammatico del 1949 che rappresenta una straordinaria sintesi dei valori che definiscono Cortazar come uomo e come autore, fin dal principio della sua esperienza letteraria.
   I Re è un  poema drammatico che ci propone, attraverso una eversiva variante del mito del Minotauro, il problema del potere.  Questo mito ha interessado nel  XX secolo molti autori, tra loro, in Argentina, Arias, Cortázar, Borges, che  lo hanno interpretato, pur nella loro diversità, secondo l’accezione che il concetto di mito ha assunto nel secolo passato. Ossia, come ci dice Mircea Eliade nel suo Mito e realtà, non in quanto “fabula”, “invenzione”, “finzione”, bensì nel senso che il mito aveva nelle società arcaiche dove “designa al contrario una storia vera e cio che è di più, una storia di  inapprezzabile valore, perché è sacra, esemplare e significativa”[i]. È di questa verità che parlano, per esempio,  gli archetipi di Jung. Por questo nel mito del  Minotauro, como lo lavorano Arias,  Cortázar y Borges, è possible trovare tutte le suggestioni e i temi delle loro opere e anche le inquietudini del nostro tempo.
   Cortázar stesso ci racconta come gli venne l’idea dell’opera.

L’ idea nacque in  un autobus […] tornando a casa, in un viaggio nel quale ti annoi, sentii la presenza di qualcosa che risultò essere  pura mitologia greca. Gli do ragione a Jung e alla sua teoria degli archetipi: tutto sta in noi. […] Non avevo allora preoccupazioni mitologiche, in nessun modo. Mi ha sempre interessato la letteratura greca e la mitología, però non al punto di identificarmi così. Nell’autobus che non aveva niente di greco, di colpo sorse la nozione del labirinto, del mito di Teseo e del Minotauro. Però succede che lo vidi al contrario, e questo è quello che mi interessò. Quando arrivai a casa mia, cominciai a scrivere e in un paio di giorni o tre, lo conclusi.

   Cortázar scelse per la sua versione del mito un testo drammatico (Arias, per esempio,  scelse la forma del romanzo nel suo “ Minotauroamor”, Borges quella del racconto breve ne "La casa di Asterione"). Noi sappiamo che un testo drammatico ha profonde differenze da un testo narrativo: è fatto per essere rappresentato, le sue parole hanno bisogno di corpi nei quali incarnarsi, spazio físico, altri linguaggi con cui dialogare; deve necessariamente trasformarsi in spettacolo, presuppone quindi una messa in scena, non c’è narratore, i personaggi si presentano da soli, tutte le parole sono allo stesso tempo azioni dove si caratterizza e impone l’io di ogni personaggio.
   Los reyes, di appena  81 pagine, si struttura in cinque scene, con cinque personaggi. In quest’ opera troviamo i temi più presenti  nella poetica di Cortázar: il potere, il sogno, i due mondi, l’amore incestuoso, il sacrificio.
   Cortázar mette in  scena il conflitto necessario al dramma, scegliendo la struttura del testo drammatico e il linguaggio della poesia come gli strumenti più efficaci per affrontare un  discorso sopra il potere. Il linguaggio dei suoi personaggi sostiene tutte le sfumature e le prospettive dei temi trattati, con una connotazione molto forte, metafore sorprendenti che per il loro vigore si trasformano sotto i nostri occhi in realtà indiscutibili. Ci dice lo stesso Cortázar che “…il linguaggio sembra venire da qualcuno che non sono io. I re è scritto in un linguaggio molto sontuoso, molto pieno di parole che cantano e  ballano, però sono contento di aver scritto questa opera”.
   Avventuriamoci ora nell’analisi e nell’ interpretazione di quest’opera straordinaria.
   Nell’ opera le  didascalie   (sei: due nella prima scena, e una    all’inizio delle altre restanti scene) hanno funzione referenziale e poetica allo stesso tempo: referenziale, in quanto collocano i personaggi nello spazio dell’ azione (interno e esterno del labirinto a Cnosso); poetica, in quanto tutte le didascalie sono allusive del clima emozionale e conflittuale che si va sviluppando in esse e sono espresse con un linguaggio molto connotato e ricco di metafore.
   I personaggi sono cinque: Minosse, Arianna, Teseo, Minotauro, il Citarista. In  ogni scena i personaggi si affrontano sempre e solo due a due.   Cortázar sceglie questo tipo di dialogo perché per lui è l’unico vero dialogo (più efficace di una comunicazione che si esprima con molte voci allo stesso tempo), per impostare un conflitto, attraverso  un confronto radicale e chiaro. Costruisce anche, dopo il monologo iniziale di Minosse, un monologo per Arianna che è l’unico personaggio che protagonizza da solo la terza scena.
   - Nella prima scena abbiamo con la  didascalia iniziale, che dice  “Alla vista del labirinto, di mattina. Sole già alto e duro, contro la curva parete come di gesso”, una chiara indicazione di luogo; ma   già Cortázar ci avvisa che quel labirinto è un labirinto della mente e dell’anima: quel sole alto e duro ci parla di calore soffocante, che brucia non  solo la pelle ma anche il cuore.  E la curva parete di gesso ci inchioda in uno spazio curvo, impossible da  conoscere e da controllare.
Due personaggi agiscono in scena: Minosse re di Creta, tanto potente che può chiedere agli Ateniesi il sacrificio dei suoi giovani per consegnarli al Minotauro, tanto potente da aver fatto costruire il labirinto da Dedalo l’ architetto più abile e più famoso della Grecia. Eppure egli non ha nessun controllo su Arianna e sul Minotauro, nonostante la sua prigionia e tanto meno sui loro sogni; Arianna, la principessa diventata Regina che forma con suo padre la coppia reale, (sua madre Pasifae ha perduto questo diritto per la sua   colpa), è sorella del Minotauro per parte di madre, è la maga che conosce segreti che altri non conoscono, che consegnerà il gomitolo  a Teseo, tradendo,  nel mito classico, suo padre e  la sua patria por amor di Teseo, difendendo nel mito di Cortázar i diritti della fratellanza e della passione che la legano al Minotauro, difendendo il suo diritto all’ oscurità, ad altri mondi. 
   Con la seconda didascalia, che annuncia l’ entrata in scena di Arianna, dopo il monologo di Minosse: “Arianna si avvicina senza guardare il suolo, gli occhi fissi nel muro del labirinto”, si esplicita l’ossessione della principessa nella stessa postura del corpo e dello sguardo: per lei esiste solo il  labirinto e il suo  abitante.
In questa scena il delirio del potere dilaga con tutta la sua mitologia nelle parole del monologo iniziale di Minosse. Minosse sa di essere  il responsabile di quel luogo innominabile, desolato e oscuro e nelle sue viscere percepisce  e ci  presenta il lato oscuro, pericoloso del suo enorme potere di re. La relazione  contradditoria e conflittuale di Minosse con il Minotauro si esprime con queste prime parole con cui si riferisce a lui chiamandolo  tortura delle sue notti, timore di re, e allo stesso tempo, segno del suo potere, testimonio vivo della  sua forza. Dopo il  delirio del potere, Minosse si abbandona al delirio dei sogni, l’ unico mondo che non può controllare e che lancia ombre sopra il suo trono. Minosse definisce  il Minotauro como enorme, dolce e libero: egli, il suo stesso nemico, il suo padrone in apparenza, ci dice che il mostro è enorme ossia invincibile, che è dolce, ossia non colpevole, che è libero ossia che la sua prigionia nel  labirinto è pura apparenza, tanto da poter abitare i sogni del re e a sua volta creare i suoi propri inaccessibili sogni. A questo punto Arianna vede e descrive la nave ateniese che si avvicina, con vele bianche, però lei sa qualcosa di più su quella nave, che nel suo ventre di legno nasconde vele nere e già percepisce la carica di tragedia e distruzione che porta con sé verso Creta. Non parla a  Minosse né como re né come padre. Nessuno può  entrare nelle sue visioni. Per la maga Arianna, non c’è necessità dell’altro per l’io. La parola non detta, segregata nella mente, è ugualmente parola, però non del dialogo, bensì della visone. L’altro, il re, il padre, sono soltanto l’ eco della sua voce, lo specchio nel quale un doppio le permette riaffermare la sua  identità, vedere la duplicità dei suoi pensieri. I due sanno che dietro la parete dove s’infrangono le loro voci c’è qualcuno la cui esistenza dà senso alle loro parole.
   Arianna chiama fratello questo qualcuno, Minosse lo chiama mostro. Arianna afferma senza vergogna né timore che una stessa madre li ha modellati nel suo seno. Però per Minosse il mostro è solo il figlio di Pasifae, lei stessa mostruosa per lui, da quando, nascosta nella vacca di bronzo forgiata da Dedalo, si è unita carnalmente  con il toro sacro. Minosse per questo dice  ad  Arianna: “Le madri non contano". Il potere è maschile e patriarcale. "Tutto  sta nel caldo seme che la sceglie e la usa. Tu sei la figlia di un re, Arianna la molto temuta, Arianna la colomba d’ oro. Lui non è nostro, un artificio. Sai di chi è fratello? Del labirinto. Del suo stesso carcere. […] Un artificio, guarda, uguale alla sua prigione.” Il Minotauro è un artificio, un ibrido, la unione di elementi che non potevano unirsi e si unirono  generando una vita differente e incomprensible.
   Minosse vuole che Arianna senta la distanza tra la sua natura e quella del prigioniero, per questo esalta la sua nascita come stirpe di re e comincia a raccontarle nei dettagli il tradimento di sua madre. Arianna non può ascoltare, non perché non sappia la storia o non voglia saperla, ma perché, sapendola,  non vuole ascoltarla raccontata da suo padre, con le parole che lui metterà alla storia. In Arianna la memoria della passione di sua madre per il toro sacro, esalta  la sua passione per il Minotauro, il fratello rinchiuso nel labirinto. A Minosse, che ribadisce la crudeltà del Minotauro che uccide affamato e furioso nel labirinto, Arianna ritorna a riproporre un’immagine differente, a difenderne l’operato. Quando viveva nel palazzo egli era mansueto e sottomesso e scambiava con lei sguardi che non avevano bisogno di parole, ma ora nel suo presente di prigioniero, Arianna  grida: “Come potrebbe vivere senza mangiare? La collera nacque dal primo che ebbe fame”. Per Arianna e per Cortázar c’è una violenza giustificata, quando bisogna difendere le necessità primarie del vivire. L’ ideologia dell’ autore si evidenzia qui in questa difesa di una violenza rivoluzionaria che  si oppone alla violenza del potere.
   Minosse cerca di far tacere Arianna: Una donna non sa guardare. Vede soltanto i suoi sogni”. Arianna non lo chiama più padre, bensí re, perché Minosse è solo questo ormai: il suo potere di re  non accetta niente che non sia  codificato dalle sue leggi e dalla sua parola. Non accetta il Minotauro, l’ ibrido, il mostro, e neppure  Arianna in quanto donna. Per lui le donne non sanno guardare perché non hanno sulle cose lo stesso sguardo degli uomini. Arianna gli risponde: “Re, così guardano gli dei e gli eroi”, come guardano le donne. E condanna come distorto dal suo potere  lo sguardo  di Minosse: egli stesso ha creato la crudeltà rinchiudendo il Minotauro nel labirinto e continua a coltivarla, insieme al terrore, nella realtà e nei sogni.
   Arianna ci dice che ci sono molte immagini del labirinto. Questo mondo rinchiuso è multiforme: popolato di desolate agonie secondo Minosse, concilio di divinità della  terra, accesso all’abisso senza sponde, porta dell’al di là, secondo il popolo. E per lei: “Il mio labirinto è chiaro e desolato, con un sole freddo e giardini centrali dove uccelli senza voce sorvolano l’immagine di mio fratello addormentato vicino a un plinto”.
   Minosse minaccia di rinchiuderla nel labirinto, ma Arianna sa che neppure il re ve la può rinchiudere, perché il labirinto non è il suo regno, a lei tocca guardarlo da fuori,  sognare col suo enigma, sentire allo stesso tempo un orrore solitario e astuto che inibisce i  suoi passi e le impedisce l’entrata. Questo orrore è anche  la delizia dell’ orrore, l’attesa rinnovata, il continuare a pensare a lui, a quell’ospite bicorne che fa venir meno il suo cuore.
Minosse annuncia che le vittime sono già arrivate. Arianna guarda l’ entrata del labirinto, al principio comoda e facile, ugualmente lei sempre si fermerà davanti all’entrata. Ci dice: “Tutto quello che segue è solamente desiderio, carne triste, involontaria. Oh fratello solo, mostro capace de eccedermi persino nell’assenza, di rivestire con paura la  mia prima tenerezza! Oh rossa fronte abominevole!”
   Minosse interpreta le parole di Arianna nel suo senso letterale, come la rinuncia alla diversità, alla conoscenza e alla  difesa dell’ oscuro mistero del labirinto e dirà: “Ora sei la regina”. Le riconosce la sua dignità solo perché crede che la rinuncia di Arianna significhi l’appartenenza al suo potere di re; vuole consolidare il suo potere che sente minacciato, vuole ricostruire la coppia reale, distrutta da una donna colpevole, vuole regnare senza paure e senza colpe. Lui è il re e lei la figlia del re, che diventa, per decisione del potere, lei stessa regina.
   Però Arianna non accetta la corona sulla sua testa, il potere non la affascina. Chiude la scena con una ferma dichiarazione di non appertenenza, non solo all’ universo dei re e del potere, ma anche a una realtà di identità bloccate, univoche, dove gli uomini cercano di rifugiarsi davanti ai dubbi, alle paure, agli esilii. “Adesso non so chi sono”, dice Arianna; sente che sta perdendo la sua identità per non poter entrare nel  labirinto, per non poter confrontarsi  con l’oggetto del suo desiderio e delle sue ossessioni.
   Il sole è duro e anche il cielo lo è. Per due volte Cortázar utilizza lo stesso aggettivo per definire il clima nel quale tutto accadrà: la durezza si annuncia già come segno di un destino che rinchiude e opprime.
   Gli Ateniesi conoscono la loro condanna, per questo si fermano confusi al fondo della scena, solo Teseo avanza per osservare Arianna. Ma Arianna si allontana appoggiandosi alla parete  del labirinto. Non è ancora il tempo per lei di confrontarsi con  Teseo. Sotto quel cielo duro e stringato possono incontrarsi solo i re, è il  tiempo di Minosse e Teseo, il tempo di un potere consolidato che mostra  le sue sfilacciature, i suoi timori, è il tempo di un potere nuovo, ancora più feroce,  che non ha dubbi né sogni. Minosse e  Teseo sono i re che danno il titolo all’opera, sono loro la coppia potente, i vincitori della storia. Nel loro incontro Cortázar ci mostra la dinamica e il confronto del potere con se stesso, ci mostra il delirio del potere, le sue maschere e i suoi atti.
   Teseo affronta Minosse, re di Creta, con la forza della  sua gioventù, con la sua fiducia in se stesso e nella sua ambizione, alla quale tutto può essere sacrificato, persino il suo stesso padre; vuole il trono e il suo regno ad Atene e non è disposto ad aspettare. Il Minotauro dovrà morire perché la fama di Teseo, eroe uccisore  di mostri, diventi  la base ferma del suo potere. Non è la fama da eroe che gli interessa quanto ciò che questa fama può procurargli: un potere senza oppositori. Teseo non viene presentato da Cortázar sotto la categoria dell’eroe,  come nel mito classico, ma sotto la categoría del re. Fin dal  principio si instaura un parallelismo tra Minosse e Teseo, si riflettono l’uno nell’altro, si capiscono. Sono in apparenza nemici ma parlano lo stesso linguaggio. Entrambi sono re.
   ll titolo dell’opera colloca l’antico mito del Minotauro e lo risignifica all’interno di un preciso   discorso sul potere. Cortázar scriveva questo  dramma nel 1949. La sua ideologia, mai nascosta, ci chiarisce contro che cosa e chi si dirige il suo discorso: contro lo sfruttamento degli uomini e contro i padroni del loro destino (i re), sia nel suo proprio paese che nel resto del mondo.
   A Cortázar interessa, per smascherarlo, come funciona il linguaggio del potere. Minosse parla a Teseo del tributo ciclico che il Minotauro reclama e si gustifica. Non è lui a volere questo ma il mostro del labirinto. Teseo dalle sue prime parole parla lo stesso linguaggio di Minosse: riferendosi al tributo per il Minotauro dice: “E naturalmente li pretende Ateniesi”. L’ ironia del greco sorprende Minosse: “Chi sei tu che mi lancia la sua acida freccia a così pochi passi dalla morte?” Minosse capisce che Teseo  non sarà la prossima vittima. “Non sei venuto a morire, la tua presenza altera l’ordine sacro”. Teseo, l’uccisore, gli risponde: “Non saprai mai quanto somiglia il tuo linguaggio al mio pensiero”. Minosse ha solo rinchiuso il Minotauro, lui,  Teseo, deve ucciderlo; sopra questo delitto si fonderà il suo potere, più giovane, aggressivo e duro del potere di Minosse. Teseo restituisce a Minosse l’ immagine di quando il potere nasce, senza  esaltazioni, domande, dubbi che possano fermare un re nel suo cammino. Lui, la potenziale vittima, dice a Minosse: “Rasserenati e calma tanto traffico oscuro guardando ciò che dura, sostenuto e chiaro, nel suo  ritmo meridiano” e dopo ritorna a fissare il suo sguardo su Arianna, la scopre nell’ombra, la descrive a Minosse, la esalta, vede in lei quello che lei può essere per i due, Minosse e Teseo: “ Ella è il vertice che unisce le nostre due linee reali” ; la donna continua ad essere, per il potere, oggetto, mai  soggetto della storia.
   Minosse non capisce, il suo  potere consumato, stanco, esposto da tempo alle inquietudini della vita, non glielo permette. “¡Oh insensato, pasto bramato del Minotauro!”, dice a Teseo. “Tu, sai già che no”  gli risponde Teseo, lui sa che è venuto per uccidere e che sopra questa necessità si fondarà il suo trono di re. Ma sa anche che il suo gesto estremo sarà inutile e inconsistente se non troverà il modo di uscire dal labirinto, altrimenti la morte del Minotauro lo renderà solo signore di un carcere e nessuno ad Atene saprà che l’ha ucciso. Teseo non dubita mai di poterlo uccidere. I dubbi sono tutti di Minosse. Però Minosse chiede a  Teseo: “Dovevi ucciderlo?” e non “Dovrai ucciderlo?”, come sarebbe stato più logico rispetto a un fatto che non è ancora avvenuto. Così che anche per il re la sicurezza e l’arroganza di Teseo ribadiscono la verità di un evento non ancora accaduto.
Teseo persiste nel suo dialogo con Minosse, mostrandogli quanto entrambi si somiglino, siano uno lo specchio dell’altro, partecipi di uno stesso destino. Minosse comincia a capire ciò che Teseo rappresenta, non più vittima designata nè nemico, non l’eroe ateniese venuto a liberare il suo popolo da un tributo crudele, spinto da spirito d’avventura, da un coraggio giovanile e  incosciente, o da un mandato familiare o etico, sta lì per la stirpe dei re. Il potere bisogna imporlo, senza parole, con il movimento e la forza.
Minosse continua però a cercare ragioni: “Dovevi ucciderlo! Oscuramente so che la tua risposta è la mia, che una sola parola può scatenare ogni enigma”. Per Minosse l’ enigma domina la sua  vita e il suo regno, lui ha dovuto rinchiuderlo nel labirinto, ma il Minotauro vive ugualmente libero nei suoi sogni. Teseo gli risponde con una domanda e un’affermazione: “Chi sa di enigmi? Io attacco”.
Il nuovo potere  non ammette enigmi, solo un’ arida chiarezza senza parole, solo sono necessari i fatti che fondano il potere e lo perpetuano. “Sono un eroe, credo che basti”. “Inoltre sono re. Egeo è morto per me. Atene troverà  presto il suo padrone. Al re puoi chiedere più che  a Teseo. Di colpo mi scopro  una pericolosa facilità per trovare  parole”. Teseo si sente già re, anticipa la morte di suo padre. Noi sappiamo che, dimenticandosi di cambiare le vele negre con quelle bianche come segno della sua vittoria, Teseo determinerà il suicidio di suo padre Egeo; sappiamo anche che non si può considerare semplicemente dimenticanza quello che ci procura la realizzazione dei nostri sogni. Teseo ritorna a dar valore alle parole, ma solo a quelle che adempiono alla sua missione e le utilizza per tessere le reti del suo ambizioso progetto.
   Cortázar ci rivela così la parola del potere: astuzia, inganno, rete tessuta per imprigionare la libertà degli uomini e impedire loro le parole e i fatti che li liberino dalla loro condizione di schiavi e oppressi. Il pragmatismo di Teseo impulsa Minosse. Teseo sente che la morte del Minotauro, lo transformerà nel Killer del re, lui sarà la mano che uccide, però chi, fin dal principio, ha sognato la morte del Minotauro, è Minosse. Il potere si è separato dalle sue mostruosità e   le ha caricate tutte sulle spalle di uno solo. Ha scelto il Minotauro come simbolo del male, responsabilizzandolo per tutto il male del mondo e scaricando su di lui tutte le responsabilità del potere e le sue terribili conseguenze. Il potere conosce dove si annida per lui il pericolo: nella  diversità, nella transgressione, nelle visioni che sorgono nell’ oscurità delle carceri e delle repressioni. Minosse ci anticipa, con le sue paure, la verità del labirinto. Là dentro le cose non sono come sembrano, sono come il potere dei re ha deciso che fossero, qualcosa è sfuggita dalla rete delle casualità predeterminate. Il mostro potrebbe non essere il mostro e il labirinto essere il luogo dove qualcosa di nuovo sta nascendo, qualcosa di incontrollabile e sconosciuto al potere.
   Questo è il terrore di Minosse che non può accettare nessuna delle immagini che Arianna proietta sul suo infelice fratello, e deve promettere Arianna a Teseo, se l’ ateniese ucciderà il Minotauro, per allontanare da sé e dal suo regno le perturbatrici visioni che lo accompagnano. Quel mito sul quale ha sostenuto il suo potere, comincia a sembrargli l’arma che sta sollevandosi contro quello stesso potere, nitida e forte, totalmente fuori del suo controllo. Minosse sa inoltre che perdere il controllo sopra i suoi stessi sogni e timori, significa perdere la totalità della sua vita. La contraddizione si apre passo in Minosse. L’esistenza in  vita del Minotauro giustifica il suo trono di re, la di lui morte potrebbe danneggiarlo. Per questo, rinnega la sua promessa di dare Arianna in sposa a Teseo e  lo minaccia che ucciderà Arianna nello stesso momento in cui Teseo ucciderà il  Minotauro. Minosse sa che nessuna minaccia potrà cambiare la decisione di Teseo. Ugualmente la pronuncia, e desidera quelle due morti che lo libererebbero dai suoi incubi. Teseo cancellerà il mostro dalla storia  e lui cancellerà l’immagine del mostro che Arianna porta nel cuore, così smetteranno di esistere nello stesso tempo il figlio di una colpa immonda e la figlia del re, la colomba d’oro, la speranza di Cnosso, lei stessa colpevole di tradimento.
   Uccidere il Minotauro o non ucciderlo diventa un dilemma amletico per Minosse, dilemma che riempie le sue parole di contraddizioni che sconcertano  Teseo. Ma alla fine Minosse trova la via d’uscita a tutti i suoi dubbi: “Uccidilo, e  custodisci  la sua morte come una pietra nella mano. Allora ti darò  Arianna”. D’improvviso Minosse passa dalla minaccia di morte verso Arianna a programmarne le nozze con Teseo, ma a  una condizione per Teseo: uccidere il Minotauro  senza che si sappia, per eliminare la minaccia della sua diversità e insieme conservare presso il popolo gli effetti della sua prigionia. Però Teseo non può accettare il silenzio sui suoi atti. Gli atti esistono solo se se ne parla, se hanno peso nella memoria degli uomini. Teseo non percepisce la unicità del Minotauro, per lui il Minotauro è solo un altro mostro da uccidere nella sua carriera di eroe; ma egli sa che quella fama di uccisore di mostri va continuamente alimentata fino a che non si siederà sul suo trono di re. Per questo il silenzio che Minosse gli chiede è inaccettabile. Teseo sa che la brutalità del potere ha bisogno di presentarsi come ordine sociale, come pulizia dalle deviazioni. A sostegno dei troni, dirà Minosse, resteranno solo gli uomini senza  profondità, ombre senza coscienza  del mostro che portano dentro, uomini come gusci vuoti, come marionette.
   Loro, i re, si assomigliano, pur mostrandosi differenti  portano avanti lo stesso compito di costruire labirinti per chiudere in essi tutto quello che sta fuori della loro ansia di dominio: il Minotauro, il mostro, l’emarginato, il povero, il ribelle, il poeta.
   - Nella terza scena la didascalia iniziale dice: “Si vedono entrare gli Ateniesi preceduti da Teseo. Con gesto leggero, quasi indifferente, l’eroe porta in mano l’estremità di un filo brillante. Arianna lascia che il gomitolo giochi tra le sue curve dita. Al restare sola di fronte al labirinto, soltanto il gomitolo si muove in scena.”. Arianna unico personaggio femminile dell’opera è anche l’unico che tenga una scena tutta per sé.
   Nel mito classico la sua ribellione non è contro le leggi di suo padre ma contro il peccato di sua madre. Nell’ interpretazione di Cortázar Arianna sente per il  Minotauro un amore incestuoso, tenero, appassionado e doloroso: amore verso il fratello e verso il mostro che abita in lui. Nessuno è come il Minotauro sulla terra, bestia e uomo allo stesso tempo, matrimonio sacro tra la terra e il cielo, fusione di materia e spirito. Non per amore ha consegnato a Teseo il gomitolo con le misteriose parole con cui lo ha accompagnato: “Se parli con lui digli che questo filo te lo ha dato  Arianna”. Teseo, non capisce né il vero significato di quel gesto né di quelle  parole.  Arianna gliele ripete “Se parli con lui digli che questo filo te lo ha dato  Arianna”. Vuole che il Minotauro uccida Teseo e dopo salga dal labirinto con il suo filo e giunga trionfante fino a lei.
   - Nella quarta scena la didascalia iniziale dice: “Nella curva galleria, Teseo affronta il Minotauro. Si vede l’estremità del filo ai piedi dell’eroe che impugna la spada”. Per la prima volta entriamo nel labirinto. Solo nell’oscurità di questo carcere diventa possibile l’incontro tra opposti, tra Teseo e il Minotauro. Il Minotauro  nel mito classico è il figlio della colpa, rifiutato, imprigionato nel labirinto, la sua mostruosità ci racconta la passione tra una donna e un toro. In Cortázar  lo scopriremo creatore di parole e immagini, il poeta, quello che si muove nel mistero, la cui esistenza stessa è una sfida al potere, per questo il potere lo nasconde.
   Nella storia i re vinceranno sul Minotauro, però nell’ eternità sarà il Minotauro a trionfare sui re. “Quando l’ ultimo osso si sia separato dalla carne, e questa mia figura dimenticata, nascerò veramente nel mio regno incontabile. Lì abiterò per sempre, come un fratello assente e magnifico”. Questa identità di fratello non riguarda soltanto Arianna ma tutti gli uomini. È la fratellanza della vittima che diventa vendicatore della sua sofferenza nella memoria degli altri, che diventa gri   do contro la sicurezza orgogliosa dei re, contro la loro visione del mondo.
Il Minotauro è per Cortázar il simbolo dell’ identità e dell’unicità, questa è la sua vera mostruosità secondo il potere. Non si tratta qui di confronto tra forze solo in apparenza dissimili come  Teseo e Minosse. Questa scena rappresenta il trionfo della separazione e della  differenza. Non c’è sulla terra niente di più diverso del  Minotauro e di  Teseo. Teseo non sa e non vuole sapere nulla del Minotauro, ma solo ficcargli una spada nel petto. Il potere deve assumere come legittima la cecità per essere in grado di governare il mondo. Il carnefice non può e non deve avere nessuna conoscenza sulla sua vittima.
   Teseo conosce solo il linguaggio della brutalità e della sua ambizione, è sicuro di vincere. Per questo dice al Minotauro: “Sarò io quello che ritornerà avvolgendo il filo sottile, per cacciar via con il mio nome il mucchio di ceneri nel quale si sarà calcinato il tuo”. Da questa presuntuosa dichiarazione intrisa di delirante superbia, il Minotauro raccoglie solo una parola: “Un filo! Allora posso uscire da qui". "Allora quello che uccide l’altro può uscire da qui". Ma Teseo apre in quella  speranza di libertà una ferita profonda:” "Mi ha dato questo filo, per riprendermi quanto ti abbia ucciso”. E gli riporta le parole di Arianna nel consegnargli il gomitolo.”Se parli con lui digli che questo filo te lo ha dato Arianna”. Sono queste parole fraintese quelle che disarmeranno il Minotauro. Né Teseo né il Minotauro capiscono la verità di quella frase: Arianna ha mandato quelle parole, insieme al filo, perché il  Minotauro sapesse che gli stava offrendo il dono della libertà, che desiderava che uccidesse Teseo e dopo uscisse di prigione, corresse verso di lei, finalmente in un abbraccio di fratelli-amanti, senza gallerie, né scale, né sguardi furtivi.
   I due, Teseo e il  Minotauro, si toccano solo nello spazio di questo equivoco. Se Arianna ha dato il filo a Teseo per la sua salvezza e se vuole che lui, suo fratello, lo sappia, c’è una sola ragione: lui, il Minotauro, già non abita più  nei sogni e nella passione di Arianna. Per questo e solo per questo si arrende alla spada di Teseo. Il Minotauro rinchiuso  nel laberinto ha sviluppato una capacità di visione alla quale Teseo non ha  accesso: con la sua rassegnata morte abiterà non solo i sogni di Arianna ma anche quelli di tutti gli uomini, abbatterà il trono stesso di Teseo, lo scettro insicuro di ogni stirpe di re, construirà un labirinto in ogni cuore d’uomo. Teseo cerca di farlo tacere; minaccia di trascinare il suo cadavere per le strade, perché il popolo lo disprezzi. Ma il canto del Minotauro s’innalza inarrestabile, non lo si può tacitare, perché egli possiede il dono magico della parole, è il  visionario, il poeta che evoca mondi, li inventa e li seduce col suo canto; colui che lancia ponti tra il presente e il futuro, perpetuando la sua unicità. Teseo  odia le parole, salvo, como gli dice il Minotauro, quelle dei canti di osanna che lo celebrano come eroe agli occhi del mondo. Su questo eroismo smisurato e ingannevole Teseo fondarà il  suo condannato regno.
   - Nella  quinta scena, la finale, troviamo questa didascalia iniziale: Il Minotauro agonizza, sostenendo la rossa testa contro il muro. Il giovane citarista si avvicina timoroso, mentre altri abitanti  del labirinto, giovani, fanciulle, si fermano più lontano". Si rappresenta la morte del Minotauro, del ribelle, del transgressore, dell’emarginado, del poeta. C’è un testimone di questa morte, il citarista, uno dei giovani che arrivarono al labirinto come vittime e furono scelti come compagni di prigionia e amici nelle parole e nei canti. Perché non ci fu morte, fino a quel momento, nel labirinto. Così il citarista acclama il Minotauro: “Oh, signore dei sogni! ¡Padrone del rito!”. Questo ha fatto il Minotauro per i prigionieri, ha celebrato un rito di parole, musiche, danze e canti, aiutandoli a superare l’adolescenza timorosa che avevano tratto dalle loro terre lontane. Al citarista, a tutti loro, che soffrono la sua morte annunciata, il Minotauro chiede silenzio, chiede che non piangano la sua morte, chiede che suonino e danzino e che lo dimentichino: spazio necessario perché, dopo la morte, la sua immagine materiale si cancelli, si perda la sua voce e solo restino le parole, queste aquile che  discenderanno su di loro per fecondarli con la sua divina eredità. Il citarista impone il silenzio al mormorio dolente  e indistinto dei suoi  compagni: “¡Tacete, tacete tutti!”.  Il Minotauro è morto. Un rumore sale dalla città. Verranno a oltraggiare il cadavere, a riscattarli, li credono prigionieri, feriti o morti, e adesso loro, i giovani prigionieri,  sanno che  torneranno ad Atene, la terra dei loro padri. Porteranno nel cuore un dolore insopportabile. Teseo ha ucciso il  Minotauro, l’ amico, il padre dei loro giorni e dei loro sogni. Dovranno mentire, celebrare in segreto il loro amico morto. Già arrivano quelli che si credono i loro liberatori e già, dal loro vero liberatore, dal signore dei giochi, cominciano le parole a produrre danza, già la cetra accompagna i passi con la sua misura sonora.

   Cortázar era perfettamente cosciente  della novità della sua interpretazione rispetto al mito classico.
Esiste una versione ufficiale del mito…Io ho visto la storia al rovescio. Ho visto nel Minotauro il poeta, l’uomo libero, l’uomo diverso che la società, il sistema rinchiude inmediatamente. A volte lo mette in cliniche psichiatriche, a volte, lo mette in labirinti. In questo caso è un labirinto.  Teseo, in cambio, è il perfetto  difensore dell’ ordine. Entra nel labirinto per tenere il gioco a Minosse, al re, è un poco il gangster del re che va lì a uccidere il poeta. E, effettivamente, nel mio poema, quando tu conosci il segreto del Minotauro, scopri che il Minotauro non ha divorato nessuno. Il Minotauro è un essere innocente che vive con i suoi ostaggi, che gioca e danza con loro. Insieme sono felici nel labirinto. Teseo, che ha i procedimenti di un perfetto fascista, s’ introduce in questo mondo che non capisce e uccide il Minotauro senza esitazioni. Questa inversione del tema, era una cosa molto poco eterodossa e causò un certo scandalo nei mezzi accademici, pero io mi sono divertito a scriverla.[ii]
   Del mito antico non gli interessa la figura del Minotauro come ibrido tra umanità e bestialità, ma la lotta di Minosse e Teseo per il potere; in questa lotta il Minotauro diventa totalmente umano, voce di una poesia che si definisce nel suo rifiuto del potere, nella sua proposta di riscatto contro la visione del mondo ottusa e dominatrice che i re tentano d’imporre agli uomini che governano. Il Minotauro poeta muore, però il  suo ricordo sfida nei secoli il nome del suo boia, diventa per sempre l’immagine della coscienza umana che nel suo linguaggio più alto, la poesia, può vincere il potere, le sue menzogne e le sue violenze.
   Cortázar volle esaltare la poesia e la forza che essa tiene per opporsi all’ordine del potere e rendere possibile il suo crollo. Per questo il linguaggio de I re è altamente connotativo, poetico: le metafore costruiscono la storia,  impiantano le tematiche, collocano i personaggi con i loro atti e le loro parole in una nuova dimensione mitica che  abbraccia la coscienza che l’uomo contemporaneo ha di sé, dei suoi strumenti e della sua storia.


MIRCEA, ELIADE, Mito y realidad, Cap.I Estructura de los mitos, Ed. Labor, Barcelona, 1994, p.
https//Vimeo.com/32244407, Entrevista de Joaquin Soler Serrano a Julio Cortazar , programa A FONDO de TVE, 1977 (36:12/40:40)
CORTÁZAR JULIO, Los reyes, Editorial Suramericana,1995

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