IL DELIRIO DEL POTERE E IL POTERE DELLA POESIA
NE “I RE” DI JULIO CORTÁZAR
di Grazia Fresu
Quest’anno si celebrano i cento anni dalla
nascita di Julio Cortazar e i cinquanta anni dal suo romanzo più famoso Rayuela. In tutto il mondo, ma
soprattutto in Argentina, suo paese natale, e in Francia dove passò gli anni
dell’esilio fino alla morte, numerose iniziative ne analizzano la figura e l’opera. Molti sono
stati gli interventi critici sulla sua scrittura. Ci è sembrato interessante,
tra le tante possibilità, analizzare la
prima opera che il nostro firmò col suo vero nome, I Re, testo drammatico del 1949 che rappresenta una straordinaria
sintesi dei valori che definiscono Cortazar come uomo e come autore, fin dal
principio della sua esperienza letteraria.
I Re è
un poema drammatico che ci propone, attraverso
una eversiva variante del mito del Minotauro, il problema del potere. Questo mito ha interessado nel XX secolo molti autori, tra loro, in
Argentina, Arias, Cortázar, Borges, che lo
hanno interpretato, pur nella loro diversità, secondo l’accezione che il
concetto di mito ha assunto nel secolo passato. Ossia, come ci dice Mircea
Eliade nel suo Mito e realtà, non in
quanto “fabula”, “invenzione”, “finzione”, bensì nel senso che il mito aveva
nelle società arcaiche dove “designa al
contrario una storia vera e cio che è di più, una storia di inapprezzabile valore, perché è sacra,
esemplare e significativa”[i]. È di questa
verità che parlano, per esempio, gli
archetipi di Jung. Por questo nel mito del Minotauro, como lo lavorano Arias, Cortázar y Borges, è possible trovare tutte le
suggestioni e i temi delle loro opere e anche le inquietudini del nostro tempo.
Cortázar stesso ci racconta come gli venne
l’idea dell’opera.
L’ idea nacque in un autobus […] tornando
a casa, in un viaggio nel quale ti annoi, sentii la presenza di qualcosa che
risultò essere pura mitologia greca. Gli
do ragione a Jung e alla sua teoria degli archetipi: tutto sta in noi. […] Non
avevo allora preoccupazioni mitologiche, in nessun modo. Mi ha sempre
interessato la letteratura greca e la mitología, però non al punto di
identificarmi così. Nell’autobus che non aveva niente di greco, di colpo sorse
la nozione del labirinto, del mito di Teseo e del Minotauro. Però succede che
lo vidi al contrario, e questo è quello che mi interessò. Quando arrivai a casa
mia, cominciai a scrivere e in un paio di giorni o tre, lo conclusi.
Cortázar scelse per la sua versione del mito
un testo drammatico (Arias, per esempio,
scelse la forma del romanzo nel suo “ Minotauroamor”, Borges quella del racconto breve ne "La casa di Asterione"). Noi
sappiamo che un testo drammatico ha profonde differenze da un testo narrativo: è
fatto per essere rappresentato, le sue parole hanno bisogno di corpi nei quali
incarnarsi, spazio físico, altri linguaggi con cui dialogare; deve necessariamente
trasformarsi in spettacolo, presuppone quindi una messa in scena, non c’è
narratore, i personaggi si presentano da soli, tutte le parole sono allo stesso
tempo azioni dove si caratterizza e impone l’io di ogni personaggio.
Los reyes, di appena 81 pagine,
si struttura in cinque scene, con cinque personaggi. In quest’ opera troviamo i
temi più presenti nella poetica di
Cortázar: il potere, il sogno, i due mondi, l’amore incestuoso, il sacrificio.
Cortázar mette in scena il conflitto necessario al dramma, scegliendo
la struttura del testo drammatico e il linguaggio della poesia come gli
strumenti più efficaci per affrontare un discorso sopra il potere. Il linguaggio dei suoi
personaggi sostiene tutte le sfumature e le prospettive dei temi trattati, con
una connotazione molto forte, metafore sorprendenti che per il loro vigore si trasformano
sotto i nostri occhi in realtà indiscutibili. Ci dice lo stesso Cortázar che “…il linguaggio sembra venire da qualcuno che
non sono io. I re è scritto in
un linguaggio molto sontuoso, molto pieno di parole che cantano e ballano, però sono contento di aver scritto questa
opera”.
Avventuriamoci
ora nell’analisi e nell’ interpretazione di quest’opera straordinaria.
Nell’ opera le didascalie (sei:
due nella prima scena, e una all’inizio delle altre restanti scene) hanno
funzione referenziale e poetica allo stesso tempo: referenziale, in quanto collocano
i personaggi nello spazio dell’ azione (interno e esterno del labirinto a
Cnosso); poetica, in quanto tutte le didascalie sono allusive del clima emozionale
e conflittuale che si va sviluppando in esse e sono espresse con un linguaggio
molto connotato e ricco di metafore.
I
personaggi sono cinque: Minosse,
Arianna, Teseo, Minotauro, il Citarista. In
ogni scena i personaggi si affrontano sempre e solo due a due. Cortázar sceglie questo tipo di dialogo perché
per lui è l’unico vero dialogo (più efficace di una comunicazione che si
esprima con molte voci allo stesso tempo), per impostare un conflitto, attraverso un confronto radicale e chiaro. Costruisce
anche, dopo il monologo iniziale di Minosse, un monologo per Arianna che è
l’unico personaggio che protagonizza da solo la terza scena.
- Nella prima scena abbiamo con la didascalia iniziale, che dice “Alla vista del labirinto, di mattina. Sole
già alto e duro, contro la curva parete come di gesso”, una chiara
indicazione di luogo; ma già Cortázar ci avvisa che quel labirinto è un
labirinto della mente e dell’anima: quel sole alto e duro ci parla di calore
soffocante, che brucia non solo la pelle
ma anche il cuore. E la curva parete di
gesso ci inchioda in uno spazio curvo, impossible da conoscere e da controllare.
Due personaggi
agiscono in scena: Minosse re di
Creta, tanto potente che può chiedere agli Ateniesi il sacrificio dei suoi
giovani per consegnarli al Minotauro, tanto potente da aver fatto costruire il
labirinto da Dedalo l’ architetto più abile e più famoso della Grecia. Eppure
egli non ha nessun controllo su Arianna e sul Minotauro, nonostante la sua
prigionia e tanto meno sui loro sogni; Arianna, la principessa diventata Regina
che forma con suo padre la coppia reale, (sua madre Pasifae ha perduto questo
diritto per la sua colpa), è sorella del Minotauro per parte di madre, è la maga che conosce
segreti che altri non conoscono, che consegnerà il gomitolo a Teseo, tradendo, nel mito classico, suo padre e la sua patria por amor di Teseo, difendendo
nel mito di Cortázar i diritti della fratellanza e della passione che la legano
al Minotauro, difendendo il suo diritto all’ oscurità, ad altri mondi.
Con la seconda didascalia, che annuncia l’
entrata in scena di Arianna, dopo il monologo di Minosse: “Arianna si avvicina senza guardare il suolo, gli occhi fissi nel muro
del labirinto”, si esplicita l’ossessione della principessa nella stessa
postura del corpo e dello sguardo: per lei esiste solo il labirinto e il suo abitante.
In questa
scena il delirio del potere dilaga con tutta la sua mitologia nelle parole del monologo
iniziale di Minosse. Minosse sa di essere il responsabile di quel luogo innominabile,
desolato e oscuro e nelle sue viscere percepisce e ci
presenta il lato oscuro, pericoloso del suo enorme potere di re. La relazione
contradditoria e conflittuale di Minosse
con il Minotauro si esprime con queste prime parole con cui si riferisce a lui
chiamandolo tortura delle sue notti, timore
di re, e allo stesso tempo, segno del suo potere, testimonio vivo della sua forza. Dopo il delirio del potere, Minosse si abbandona al
delirio dei sogni, l’ unico mondo che non può controllare e che lancia ombre sopra
il suo trono. Minosse definisce il
Minotauro como enorme, dolce e libero: egli, il suo stesso nemico, il suo
padrone in apparenza, ci dice che il mostro è enorme ossia invincibile, che è
dolce, ossia non colpevole, che è libero ossia che la sua prigionia nel labirinto è pura apparenza, tanto da poter
abitare i sogni del re e a sua volta creare i suoi propri inaccessibili sogni. A
questo punto Arianna vede e descrive la nave ateniese che si avvicina, con vele
bianche, però lei sa qualcosa di più su quella nave, che nel suo ventre di
legno nasconde vele nere e già percepisce la carica di tragedia e distruzione
che porta con sé verso Creta. Non parla a Minosse né como re né come padre. Nessuno può entrare nelle sue visioni. Per la maga Arianna,
non c’è necessità dell’altro per l’io. La parola non detta, segregata nella
mente, è ugualmente parola, però non del dialogo, bensì della visone. L’altro,
il re, il padre, sono soltanto l’ eco della sua voce, lo specchio nel quale un
doppio le permette riaffermare la sua identità, vedere la duplicità dei suoi pensieri.
I due sanno che dietro la parete dove s’infrangono le loro voci c’è qualcuno la
cui esistenza dà senso alle loro parole.
Arianna chiama fratello questo qualcuno,
Minosse lo chiama mostro. Arianna afferma senza vergogna né timore che una
stessa madre li ha modellati nel suo seno. Però per Minosse il mostro è solo il
figlio di Pasifae, lei stessa mostruosa per lui, da quando, nascosta nella
vacca di bronzo forgiata da Dedalo, si è unita carnalmente con il toro sacro. Minosse per questo dice ad Arianna: “Le
madri non contano". Il potere è maschile e patriarcale. "Tutto
sta nel caldo seme che la sceglie e la usa. Tu sei la figlia di un re,
Arianna la molto temuta, Arianna la colomba d’ oro. Lui non è nostro, un
artificio. Sai di chi è fratello? Del labirinto. Del suo stesso carcere. […] Un
artificio, guarda, uguale alla sua prigione.” Il Minotauro è un artificio,
un ibrido, la unione di elementi che non potevano unirsi e si unirono generando una vita differente e
incomprensible.
Minosse vuole che Arianna senta la distanza tra
la sua natura e quella del prigioniero, per questo esalta la sua nascita come
stirpe di re e comincia a raccontarle nei dettagli il tradimento di sua madre. Arianna
non può ascoltare, non perché non sappia la storia o non voglia saperla, ma
perché, sapendola, non vuole ascoltarla
raccontata da suo padre, con le parole che lui metterà alla storia. In Arianna
la memoria della passione di sua madre per il toro sacro, esalta la sua passione per il Minotauro, il fratello
rinchiuso nel labirinto. A Minosse, che ribadisce la crudeltà del Minotauro che
uccide affamato e furioso nel labirinto, Arianna ritorna a riproporre
un’immagine differente, a difenderne l’operato. Quando viveva nel palazzo egli
era mansueto e sottomesso e scambiava con lei sguardi che non avevano bisogno
di parole, ma ora nel suo presente di prigioniero, Arianna grida: “Come
potrebbe vivere senza mangiare? La collera nacque dal primo che ebbe fame”. Per Arianna e per Cortázar c’è una violenza giustificata,
quando bisogna difendere le necessità primarie del vivire. L’ ideologia dell’
autore si evidenzia qui in questa difesa di una violenza rivoluzionaria che si oppone alla violenza del potere.
Minosse cerca di far tacere Arianna: “Una
donna non sa guardare. Vede soltanto i suoi sogni”. Arianna non lo chiama
più padre, bensí re, perché Minosse è solo questo ormai: il suo potere di re non accetta niente che non sia codificato dalle sue leggi e dalla sua parola.
Non accetta il Minotauro, l’ ibrido, il mostro, e neppure Arianna in quanto donna. Per lui le donne non
sanno guardare perché non hanno sulle cose lo stesso sguardo degli uomini.
Arianna gli risponde: “Re, così guardano
gli dei e gli eroi”, come guardano le donne. E condanna come distorto dal
suo potere lo sguardo di Minosse: egli stesso ha creato la crudeltà
rinchiudendo il Minotauro nel labirinto e continua a coltivarla, insieme al
terrore, nella realtà e nei sogni.
Arianna ci dice che ci sono molte immagini
del labirinto. Questo mondo rinchiuso è multiforme: popolato di desolate agonie
secondo Minosse, concilio di divinità della terra, accesso all’abisso senza sponde, porta
dell’al di là, secondo il popolo. E per lei: “Il mio labirinto è chiaro e desolato, con un sole freddo e giardini
centrali dove uccelli senza voce sorvolano l’immagine di mio fratello
addormentato vicino a un plinto”.
Minosse minaccia di rinchiuderla nel
labirinto, ma Arianna sa che neppure il re ve la può rinchiudere, perché il
labirinto non è il suo regno, a lei tocca guardarlo da fuori, sognare col suo enigma, sentire allo stesso
tempo un orrore solitario e astuto che inibisce i suoi passi e le impedisce l’entrata. Questo
orrore è anche la delizia dell’ orrore, l’attesa
rinnovata, il continuare a pensare a lui, a quell’ospite bicorne che fa venir
meno il suo cuore.
Minosse
annuncia che le vittime sono già arrivate. Arianna guarda l’ entrata del labirinto,
al principio comoda e facile, ugualmente lei sempre si fermerà davanti
all’entrata. Ci dice: “Tutto
quello che segue è solamente desiderio, carne triste, involontaria. Oh fratello
solo, mostro capace de eccedermi persino nell’assenza, di rivestire con paura
la mia prima tenerezza! Oh rossa fronte
abominevole!”
Minosse interpreta le parole di Arianna nel
suo senso letterale, come la rinuncia alla diversità, alla conoscenza e alla difesa dell’ oscuro mistero del labirinto e
dirà: “Ora sei la regina”. Le riconosce
la sua dignità solo perché crede che la rinuncia di Arianna significhi l’appartenenza
al suo potere di re; vuole consolidare il suo potere che sente minacciato, vuole
ricostruire la coppia reale, distrutta da una donna colpevole, vuole regnare
senza paure e senza colpe. Lui è il re e lei la figlia del re, che diventa, per
decisione del potere, lei stessa regina.
Però Arianna non accetta la corona sulla sua
testa, il potere non la affascina. Chiude la scena con una ferma dichiarazione
di non appertenenza, non solo all’ universo dei re e del potere, ma anche a una
realtà di identità bloccate, univoche, dove gli uomini cercano di rifugiarsi davanti
ai dubbi, alle paure, agli esilii. “Adesso
non so chi sono”, dice Arianna; sente che sta perdendo la sua identità per
non poter entrare nel labirinto, per non
poter confrontarsi con l’oggetto del suo
desiderio e delle sue ossessioni.
Il sole è duro e anche il cielo lo è. Per due
volte Cortázar utilizza lo stesso aggettivo per definire il clima nel quale
tutto accadrà: la durezza si annuncia già come segno di un destino che
rinchiude e opprime.
Gli Ateniesi conoscono la loro condanna, per
questo si fermano confusi al fondo della scena, solo Teseo avanza per osservare
Arianna. Ma Arianna si allontana appoggiandosi alla parete del labirinto. Non è ancora il tempo per lei
di confrontarsi con Teseo. Sotto quel
cielo duro e stringato possono incontrarsi solo i re, è il tiempo di Minosse e Teseo, il tempo di un potere
consolidato che mostra le sue sfilacciature,
i suoi timori, è il tempo di un potere nuovo, ancora più feroce, che non ha dubbi né sogni. Minosse e Teseo sono i re che danno il titolo all’opera,
sono loro la coppia potente, i vincitori della storia. Nel loro incontro
Cortázar ci mostra la dinamica e il confronto del potere con se stesso, ci
mostra il delirio del potere, le sue maschere e i suoi atti.
Teseo affronta Minosse, re di Creta, con la
forza della sua gioventù, con la sua fiducia
in se stesso e nella sua ambizione, alla quale tutto può essere sacrificato, persino
il suo stesso padre; vuole il trono e il suo regno ad Atene e non è disposto ad
aspettare. Il Minotauro dovrà morire perché la fama di Teseo, eroe uccisore di mostri, diventi la base ferma del suo potere. Non è la fama
da eroe che gli interessa quanto ciò che questa fama può procurargli: un potere
senza oppositori. Teseo non viene presentato da Cortázar sotto la categoria dell’eroe, come nel mito classico, ma sotto la categoría
del re. Fin dal principio si instaura un
parallelismo tra Minosse e Teseo, si riflettono l’uno nell’altro, si capiscono.
Sono in apparenza nemici ma parlano lo stesso linguaggio. Entrambi sono re.
ll titolo dell’opera colloca l’antico mito
del Minotauro e lo risignifica all’interno di un preciso discorso sul potere. Cortázar scriveva
questo dramma nel 1949. La sua ideologia,
mai nascosta, ci chiarisce contro che cosa e chi si dirige il suo discorso:
contro lo sfruttamento degli uomini e contro i padroni del loro destino (i re),
sia nel suo proprio paese che nel resto del mondo.
A Cortázar interessa, per smascherarlo, come
funciona il linguaggio del potere. Minosse parla a Teseo del tributo ciclico che
il Minotauro reclama e si gustifica. Non è lui a volere questo ma il mostro del
labirinto. Teseo dalle sue prime parole parla lo stesso linguaggio di Minosse:
riferendosi al tributo per il Minotauro dice: “E naturalmente li pretende Ateniesi”. L’ ironia del greco sorprende
Minosse: “Chi sei tu che mi lancia la sua
acida freccia a così pochi passi dalla morte?” Minosse capisce che Teseo non sarà la
prossima vittima. “Non sei venuto a
morire, la tua presenza altera l’ordine sacro”. Teseo, l’uccisore, gli
risponde: “Non
saprai mai quanto somiglia il tuo linguaggio al mio pensiero”. Minosse ha
solo rinchiuso il Minotauro, lui, Teseo,
deve ucciderlo; sopra questo delitto si fonderà il suo potere, più giovane,
aggressivo e duro del potere di Minosse. Teseo restituisce a Minosse l’ immagine
di quando il potere nasce, senza esaltazioni,
domande, dubbi che possano fermare un re nel suo cammino. Lui, la potenziale
vittima, dice a Minosse: “Rasserenati e
calma tanto traffico oscuro guardando ciò che dura, sostenuto e chiaro, nel suo
ritmo meridiano” e dopo ritorna a
fissare il suo sguardo su Arianna, la scopre nell’ombra, la descrive a Minosse,
la esalta, vede in lei quello che lei può essere per i due, Minosse e Teseo: “ Ella è il
vertice che unisce le nostre due linee reali” ; la
donna continua ad essere, per il potere, oggetto, mai soggetto della storia.
Minosse non capisce, il suo potere consumato, stanco, esposto da tempo
alle inquietudini della vita, non glielo permette. “¡Oh insensato, pasto bramato del Minotauro!”, dice a Teseo. “Tu, sai
già che no” gli risponde Teseo, lui
sa che è venuto per uccidere e che sopra questa necessità si fondarà il suo
trono di re. Ma sa anche che il suo gesto estremo sarà inutile e inconsistente
se non troverà il modo di uscire dal labirinto, altrimenti la morte del
Minotauro lo renderà solo signore di un carcere e nessuno ad Atene saprà che
l’ha ucciso. Teseo non dubita mai di poterlo uccidere. I dubbi sono tutti di
Minosse. Però Minosse chiede a Teseo: “Dovevi ucciderlo?” e non “Dovrai ucciderlo?”, come sarebbe stato
più logico rispetto a un fatto che non è ancora avvenuto. Così che anche per il
re la sicurezza e l’arroganza di Teseo ribadiscono la verità di un evento non
ancora accaduto.
Teseo persiste
nel suo dialogo con Minosse, mostrandogli quanto entrambi si somiglino, siano
uno lo specchio dell’altro, partecipi di uno stesso destino. Minosse comincia a
capire ciò che Teseo rappresenta, non più vittima designata nè nemico, non
l’eroe ateniese venuto a liberare il suo popolo da un tributo crudele, spinto
da spirito d’avventura, da un coraggio giovanile e incosciente, o da un mandato familiare o
etico, sta lì per la stirpe dei re. Il potere bisogna imporlo, senza parole,
con il movimento e la forza.
Minosse continua
però a cercare ragioni: “Dovevi
ucciderlo! Oscuramente so che la tua risposta è la mia, che una sola parola può
scatenare ogni enigma”. Per Minosse l’
enigma domina la sua vita e il suo regno,
lui ha dovuto rinchiuderlo nel labirinto, ma il Minotauro vive ugualmente
libero nei suoi sogni. Teseo gli risponde con una domanda e un’affermazione: “Chi sa di enigmi? Io attacco”.
Il nuovo potere
non ammette enigmi, solo un’ arida chiarezza
senza parole, solo sono necessari i fatti che fondano il potere e lo perpetuano. “Sono
un eroe, credo che basti”.
“Inoltre sono re. Egeo è morto per me.
Atene troverà presto il suo padrone. Al
re puoi chiedere più che a Teseo. Di
colpo mi scopro una pericolosa facilità
per trovare parole”. Teseo si sente
già re, anticipa la morte di suo padre. Noi sappiamo che, dimenticandosi di
cambiare le vele negre con quelle bianche come segno della sua vittoria, Teseo
determinerà il suicidio di suo padre Egeo; sappiamo anche che non si può
considerare semplicemente dimenticanza quello che ci procura la realizzazione
dei nostri sogni. Teseo ritorna a dar valore alle parole, ma solo a quelle che
adempiono alla sua missione e le utilizza per tessere le reti del suo ambizioso
progetto.
Cortázar ci rivela così la parola del potere: astuzia, inganno, rete
tessuta per imprigionare la libertà degli uomini e impedire loro le parole e i
fatti che li liberino dalla loro condizione di schiavi e oppressi. Il pragmatismo
di Teseo impulsa Minosse. Teseo sente che la morte del Minotauro, lo transformerà
nel Killer del re, lui sarà la mano che uccide, però chi, fin dal principio, ha
sognato la morte del Minotauro, è Minosse. Il potere si è separato dalle sue mostruosità
e le ha caricate tutte sulle spalle di
uno solo. Ha scelto il Minotauro come simbolo del male, responsabilizzandolo per
tutto il male del mondo e scaricando su di lui tutte le responsabilità del
potere e le sue terribili conseguenze. Il potere conosce dove si annida per lui
il pericolo: nella diversità, nella
transgressione, nelle visioni che sorgono nell’ oscurità delle carceri e delle
repressioni. Minosse ci anticipa, con le sue paure, la verità del labirinto. Là
dentro le cose non sono come sembrano, sono come il potere dei re ha deciso che
fossero, qualcosa è sfuggita dalla rete delle casualità predeterminate. Il
mostro potrebbe non essere il mostro e il labirinto essere il luogo dove
qualcosa di nuovo sta nascendo, qualcosa di incontrollabile e sconosciuto al
potere.
Questo è il terrore di Minosse che non può accettare
nessuna delle immagini che Arianna proietta sul suo infelice fratello, e deve
promettere Arianna a Teseo, se l’ ateniese ucciderà il Minotauro, per
allontanare da sé e dal suo regno le perturbatrici visioni che lo accompagnano.
Quel
mito sul quale ha sostenuto il suo potere, comincia a sembrargli l’arma che sta
sollevandosi contro quello stesso potere, nitida e forte, totalmente fuori del
suo controllo. Minosse
sa inoltre che perdere il controllo sopra i suoi stessi sogni e timori,
significa perdere la totalità della sua vita. La contraddizione si apre passo in
Minosse. L’esistenza in vita del
Minotauro giustifica il suo trono di re, la di lui morte potrebbe danneggiarlo.
Per questo, rinnega la sua promessa di dare Arianna in sposa a Teseo e lo minaccia che ucciderà Arianna nello stesso
momento in cui Teseo ucciderà il Minotauro. Minosse sa che nessuna minaccia potrà
cambiare la decisione di Teseo. Ugualmente la pronuncia, e desidera quelle due morti che
lo libererebbero dai suoi incubi. Teseo
cancellerà il mostro dalla storia e lui
cancellerà l’immagine del mostro che Arianna porta nel cuore, così smetteranno
di esistere nello stesso tempo il figlio di una colpa immonda e la figlia del
re, la colomba d’oro, la speranza di Cnosso, lei stessa colpevole di
tradimento.
Uccidere il Minotauro o non ucciderlo
diventa un dilemma amletico per Minosse, dilemma che riempie le sue parole di
contraddizioni che sconcertano Teseo. Ma
alla fine Minosse trova la via d’uscita a tutti i suoi dubbi: “Uccidilo, e custodisci la sua morte come una pietra nella mano. Allora
ti darò Arianna”. D’improvviso Minosse
passa dalla minaccia di morte verso Arianna a programmarne le nozze con Teseo,
ma a una condizione per Teseo: uccidere
il Minotauro senza che si sappia, per
eliminare la minaccia della sua diversità e insieme conservare presso il popolo
gli effetti della sua prigionia. Però Teseo non può accettare il
silenzio sui suoi atti. Gli
atti esistono solo se se ne parla, se hanno peso nella memoria degli uomini. Teseo
non percepisce la unicità del Minotauro, per lui il Minotauro è solo un altro
mostro da uccidere nella sua carriera di eroe; ma egli sa che quella fama di
uccisore di mostri va continuamente alimentata fino a che non si siederà sul
suo trono di re. Per questo il silenzio che Minosse gli chiede è inaccettabile.
Teseo sa che la brutalità del potere ha bisogno di presentarsi come ordine
sociale, come pulizia dalle deviazioni. A sostegno dei troni, dirà Minosse, resteranno
solo gli uomini senza profondità, ombre
senza coscienza del mostro che portano
dentro, uomini come gusci vuoti, come marionette.
Loro, i re, si assomigliano, pur mostrandosi
differenti portano avanti lo stesso
compito di costruire labirinti per chiudere in essi tutto quello che sta fuori della loro ansia di dominio: il Minotauro, il mostro,
l’emarginato, il povero, il ribelle, il poeta.
- Nella terza scena la didascalia
iniziale dice: “Si vedono entrare gli
Ateniesi preceduti da Teseo. Con gesto leggero, quasi indifferente, l’eroe
porta in mano l’estremità di un filo brillante. Arianna lascia che il gomitolo
giochi tra le sue curve dita. Al restare sola di fronte al labirinto, soltanto
il gomitolo si muove in scena.”. Arianna unico personaggio femminile
dell’opera è anche l’unico che tenga una scena tutta per sé.
Nel mito classico la sua ribellione non è
contro le leggi di suo padre ma contro il peccato di sua madre. Nell’
interpretazione di Cortázar Arianna sente per il Minotauro un amore incestuoso, tenero, appassionado
e doloroso: amore verso il fratello e verso il mostro che abita in lui. Nessuno
è come il Minotauro sulla terra, bestia e uomo allo stesso tempo, matrimonio
sacro tra la terra e il cielo, fusione di materia e spirito. Non per amore ha
consegnato a Teseo il gomitolo con le misteriose parole con cui lo ha
accompagnato: “Se parli con lui digli che
questo filo te lo ha dato Arianna”. Teseo, non capisce né il vero significato di quel
gesto né di quelle parole. Arianna gliele ripete “Se parli con lui digli che questo filo te lo ha dato Arianna”. Vuole
che il Minotauro uccida Teseo e dopo salga dal labirinto con il suo filo e
giunga trionfante fino a lei.
- Nella quarta scena la didascalia iniziale dice:
“Nella curva galleria, Teseo affronta il
Minotauro. Si vede l’estremità del filo ai piedi dell’eroe che impugna la spada”.
Per la prima volta entriamo nel labirinto. Solo nell’oscurità di questo
carcere diventa possibile l’incontro tra opposti, tra Teseo e il Minotauro. Il Minotauro nel mito classico è il figlio della colpa, rifiutato,
imprigionato nel labirinto, la sua mostruosità ci
racconta la passione tra una donna e un toro. In Cortázar lo scopriremo creatore di parole e immagini,
il poeta, quello che si muove nel mistero, la cui esistenza stessa è una sfida
al potere, per questo il potere lo nasconde.
Nella storia i re vinceranno sul Minotauro,
però nell’ eternità sarà il Minotauro a trionfare sui re. “Quando l’ ultimo osso si sia separato dalla carne, e questa mia figura
dimenticata, nascerò veramente nel mio regno incontabile. Lì abiterò per
sempre, come un fratello assente e magnifico”. Questa identità di fratello
non riguarda soltanto Arianna ma tutti gli uomini. È la fratellanza della
vittima che diventa vendicatore della sua sofferenza nella memoria degli altri,
che diventa gri do contro la sicurezza
orgogliosa dei re, contro la loro visione del mondo.
Il
Minotauro è per Cortázar il simbolo dell’ identità e dell’unicità, questa è la
sua vera mostruosità secondo il potere. Non si
tratta qui di confronto tra forze solo in apparenza dissimili come Teseo e Minosse. Questa scena rappresenta il
trionfo della separazione e della differenza.
Non c’è sulla terra niente di più diverso del Minotauro e di Teseo. Teseo non sa e non vuole sapere nulla
del Minotauro, ma solo ficcargli una spada nel petto. Il
potere deve assumere come legittima la cecità per essere in grado di governare
il mondo. Il carnefice non può e non deve avere nessuna
conoscenza sulla sua vittima.
Teseo conosce solo il linguaggio della
brutalità e della sua ambizione, è sicuro di vincere. Per questo dice al
Minotauro: “Sarò io quello che ritornerà
avvolgendo il filo sottile, per cacciar via con il mio nome il mucchio di
ceneri nel quale si sarà calcinato il tuo”. Da questa presuntuosa dichiarazione
intrisa di delirante superbia, il Minotauro raccoglie solo una parola: “Un filo! Allora posso uscire da qui".
"Allora quello che uccide l’altro può uscire da qui". Ma Teseo apre in quella speranza di libertà una ferita profonda:” "Mi ha dato questo filo, per
riprendermi quanto ti abbia ucciso”. E gli riporta le parole di Arianna nel
consegnargli il gomitolo.”Se parli con
lui digli che questo filo te lo ha dato Arianna”. Sono queste parole
fraintese quelle che disarmeranno il Minotauro. Né Teseo né il Minotauro
capiscono la verità di quella frase: Arianna ha mandato quelle parole, insieme
al filo, perché il Minotauro sapesse che
gli stava offrendo il dono della libertà, che desiderava che uccidesse Teseo e
dopo uscisse di prigione, corresse verso di lei, finalmente in un abbraccio di
fratelli-amanti, senza gallerie, né scale, né sguardi furtivi.
I due, Teseo e il Minotauro, si toccano solo nello spazio di
questo equivoco. Se Arianna ha dato il filo a Teseo per la sua salvezza e se
vuole che lui, suo fratello, lo sappia, c’è una sola ragione: lui, il
Minotauro, già non abita più nei sogni e
nella passione di Arianna. Per questo e solo per questo si arrende alla spada
di Teseo. Il Minotauro rinchiuso nel
laberinto ha sviluppato una capacità di visione alla quale Teseo non ha accesso: con la sua rassegnata morte abiterà
non solo i sogni di Arianna ma anche quelli di tutti gli uomini, abbatterà il
trono stesso di Teseo, lo scettro insicuro di ogni stirpe di re, construirà un
labirinto in ogni cuore d’uomo. Teseo cerca di farlo tacere; minaccia di
trascinare il suo cadavere per le strade, perché il popolo lo disprezzi. Ma il
canto del Minotauro s’innalza inarrestabile, non lo si può tacitare, perché
egli possiede il dono magico della parole, è il
visionario, il poeta che evoca mondi, li inventa e li seduce col suo
canto; colui che lancia ponti tra il presente e il futuro, perpetuando la sua
unicità. Teseo odia le parole, salvo,
como gli dice il Minotauro, quelle dei canti di osanna che lo celebrano come
eroe agli occhi del mondo. Su questo eroismo smisurato e ingannevole Teseo fondarà
il suo condannato regno.
- Nella
quinta scena, la finale, troviamo questa didascalia iniziale: Il Minotauro agonizza, sostenendo la rossa
testa contro il muro. Il giovane citarista si avvicina timoroso, mentre altri
abitanti del labirinto, giovani, fanciulle,
si fermano più lontano". Si rappresenta la morte del Minotauro, del ribelle,
del transgressore, dell’emarginado, del poeta. C’è un testimone di questa morte,
il citarista, uno dei giovani che arrivarono al labirinto come vittime e furono
scelti come compagni di prigionia e amici nelle parole e nei canti. Perché non
ci fu morte, fino a quel momento, nel labirinto. Così il citarista acclama il
Minotauro: “Oh, signore dei sogni! ¡Padrone
del rito!”. Questo ha fatto il Minotauro per
i prigionieri, ha celebrato un rito di parole, musiche, danze e canti, aiutandoli
a superare l’adolescenza timorosa che avevano tratto dalle loro terre lontane.
Al citarista, a tutti loro, che soffrono la sua morte annunciata, il Minotauro chiede
silenzio, chiede che non piangano la sua morte, chiede che suonino e danzino e
che lo dimentichino: spazio necessario perché, dopo la morte, la sua immagine
materiale si cancelli, si perda la sua voce e solo restino le parole, queste
aquile che discenderanno su di loro per
fecondarli con la sua divina eredità. Il citarista impone il silenzio al mormorio
dolente e indistinto dei suoi compagni: “¡Tacete,
tacete tutti!”. Il Minotauro è morto.
Un rumore sale dalla città. Verranno a oltraggiare il cadavere, a riscattarli,
li credono prigionieri, feriti o morti, e adesso loro, i giovani prigionieri, sanno che torneranno ad Atene, la terra dei loro padri. Porteranno
nel cuore un dolore insopportabile. Teseo ha ucciso il Minotauro, l’ amico, il padre dei loro giorni
e dei loro sogni. Dovranno mentire, celebrare in segreto il loro amico morto.
Già arrivano quelli che si credono i loro liberatori e già, dal loro vero
liberatore, dal signore dei giochi, cominciano le parole a produrre danza, già
la cetra accompagna i passi con la sua misura sonora.
Cortázar era perfettamente cosciente della novità della sua interpretazione rispetto
al mito classico.
Esiste una versione ufficiale
del mito…Io ho visto la storia al rovescio. Ho visto nel Minotauro il poeta, l’uomo
libero, l’uomo diverso che la società, il sistema rinchiude inmediatamente. A
volte lo mette in cliniche psichiatriche, a volte, lo mette in labirinti. In
questo caso è un labirinto. Teseo, in
cambio, è il perfetto difensore dell’
ordine. Entra nel labirinto per tenere il gioco a Minosse, al re, è un poco il gangster
del re che va lì a uccidere il poeta. E, effettivamente, nel mio poema, quando
tu conosci il segreto del Minotauro, scopri che il Minotauro non ha divorato
nessuno. Il Minotauro è un essere innocente che vive con i suoi ostaggi, che
gioca e danza con loro. Insieme sono felici nel labirinto. Teseo, che ha i
procedimenti di un perfetto fascista, s’ introduce in questo mondo che non
capisce e uccide il Minotauro senza esitazioni. Questa inversione del tema, era
una cosa molto poco eterodossa e causò un certo scandalo nei mezzi accademici,
pero io mi sono divertito a scriverla.[ii]
Del mito antico non gli interessa la figura
del Minotauro come ibrido tra umanità e bestialità, ma la lotta di Minosse e
Teseo per il potere; in questa lotta il Minotauro diventa totalmente umano, voce
di una poesia che si definisce nel suo rifiuto del potere, nella sua proposta
di riscatto contro la visione del mondo ottusa e dominatrice che i re tentano
d’imporre agli uomini che governano. Il Minotauro poeta muore, però il suo ricordo sfida nei secoli il nome del suo
boia, diventa per sempre l’immagine della coscienza umana che nel suo
linguaggio più alto, la poesia, può vincere il potere, le sue menzogne e le sue
violenze.
Cortázar volle esaltare la poesia e la forza
che essa tiene per opporsi all’ordine del potere e rendere possibile il suo
crollo. Per questo il linguaggio de I re
è altamente connotativo, poetico: le metafore costruiscono la storia, impiantano le tematiche, collocano i
personaggi con i loro atti e le loro parole in una nuova dimensione mitica che abbraccia la coscienza che l’uomo
contemporaneo ha di sé, dei suoi strumenti e della sua storia.
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