da La tregua – Primo Levi
Volgendo questi pensieri, che ci vietavano il sonno, passammo la prima
notte in Italia, mentre il treno discendeva lentamente la val d’Adige
deserta e buia. Il 17 di ottobre ci accolse il campo di Pescantina,
presso Verona, e qui ci sciogliemmo, ognuno verso la sua sorte: ma solo
alla sera del giorno seguente partì un treno in direzione di Torino. Nel
vortice confuso di migliaia di profughi
e reduci, intravvedemmo Pista, che già aveva trovato la sua strada:
portava il bracciale bianco e giallo della Pontificia opera di
Assistenza, e collaborava alacre e lieto alla vita del campo. Ed ecco,
di tutto il capo più alto della folla, avanzare verso di noi una figura,
un viso noto, il Moro di Verona. Veniva a salutarci, Leonardo e me: era
arrivato a casa, primo fra tutti, poiché Avesa, il suo paese, era a
pochi chilometri. E ci benedisse, il vecchio bestemmiatore: levò due
dita enormi e nodose, e ci benedisse col gesto solenne dei pontefici,
augurandoci un buon ritorno e ogni bene. L’augurio ci fu grato, poiché
ne sentivamo il bisogno.
Giunsi a Torino il 19 di ottobre, dopo
trentacinque giorni di viaggio: la casa era in piedi, tutti i familiari
vivi, nessuno mi aspettava. Ero gonfio, barbuto e lacero, e stentai a
farmi riconoscere. Ritrovai gli amici pieni di Vita, il calore della
mensa sicura, la concretezza del lavoro quotidiano, la gioia liberatrice
del raccontare. Ritrovai un letto largo e pulito, che a sera (attimo di
terrore) cedette morbido sotto il mio peso. Ma solo dopo molti mesi
svanì in
me l’abitudine di camminare con lo sguardo fisso al suolo,
come per cercarvi qualcosa da mangiare o da intascare presto e vendere
per pane; e non ha cessato di visitarmi, ad intervalli ora fitti, ora
radi, un sogno pieno di spavento.
È un sogno entro un altro sogno,
vario nei particolari, unico nella sostanza. Sono a tavola con la
famiglia, o con amici, o al lavoro, o in una campagna verde: in un
ambiente insomma placido e disteso, apparentemente privo di tensione e
di pena; eppure provo un’angoscia sottile e profonda, la sensazione
definita di una minaccia che incombe. E infatti, al procedere del sogno,
a poco a poco o brutalmente, ogni volta in modo diverso, tutto cade e
si disfa intorno a me, lo scenario, le pareti, le persone, e l’angoscia
si fa più
intensa e più precisa. Tutto è ora volto in caos: sono
solo al centro di un nulla grigio e torbido, ed ecco, io so che cosa
questo significa, ed anche so di averlo sempre saputo: sono di nuovo in
Lager, e nulla era vero all’infuori del Lager. Il resto era breve
vacanza, o inganno dei sensi, sogno: la famiglia, la natura in fiore, la
casa. Ora questo sogno interno, il sogno di pace, è finito, e nel sogno
esterno, che prosegue gelido, odo risuonare una voce, ben nota; una
sola parola, non imperiosa, anzi breve e sommessa. È il Comando
dell’alba in Auschwitz, una parola straniera, temuta e attesa: alzarsi,
«Wstawać».
Torino, dicembre 1961 - novembre 1962.