Un amore – Dino Buzzati
Capiva però quanto l’assegnargli
la parte di zio fosse comodo a Laide. Un alibi che le consentiva di fare l’amore
con questo o con quello e nello stesso tempo di farsi condurre in giro da
Antonio senza che ciò risultasse scandaloso. Avrebbe avuto una voglia matta,
quando il portiere dell’albergo gli aveva parlato della nipote, di rispondere: “Nipote?
Mai stata mia nipote, quella lì”. Poi si era fermato in tempo: avrebbe
probabilmente fatto la figura del vecchietto cornuto e menato per il naso.
Senza contare che lei, Laide, se per caso informata della cosa, sarebbe andata
in bestia, capace magari di mandarlo a dar via l’anima alla presenza di tutti.
Così rimuginava
quando lei discese. Era tutta in ordine, ben truccata e pettinata, indossava un
vestito plissé e portava in braccio un minuscolo cagnolino maltese.
Dietro veniva il facchino con una valigia, due valigette, un beauty case e
un soprabito di antilope scamosciata.
«È questo il tuo
famoso cagnolino?»
«Mettiamo addirittura
le robe in macchina?» fece lei prontissima senza rispondere e lui notò che dava
un’occhiata intorno di controllo se mai altri, oltre al facchino avesse udito
la domanda di Antonio. Perché era ben strano che uno zio non avesse mai visto
il cagnolino della diletta nipote.
Si accorse pure che
Laide di colpo si era ingrugnata: affrettò il passo in modo da distanziare il
facchino e gli disse:
«Se c’è una cosa che
odio è di parlare delle nostre cose alla presenza di estranei!»
«Che cose? Che cosa
ho detto?»
«Niente, niente» fece
lei a bassa voce perché il facchino si stava avvicinando «in certe cose
voialtri uomini siete dei perfetti cretini.»
Si rasserenò per
fortuna quando dinanzi all’albergo vide la spyder rossa che aspettava,
fiammeggiante al sole di maggio.
«È tua?»
«No. Me l’ha
imprestata un amico.»
«Figurarsi. Quando è
che ti deciderai a cambiarla quella tua vecchia baracca?»
Sistemarono le valige
nel portabagagli, poi lei disse:
«Senti, dovresti
farmi un piacere, scusa sai.»
«Cosa?»
«Qui all’albergo mi è
rimasto qualcosa da pagare.»
«Sarebbe come dire il
conto.»
«Lo vedi come sei?
Subito a pensar male. Il conto è già pagato. Vorresti che ti faccia venire da
Milano fin qui perché mi paghi il conto dell’albergo?
Mi stimi proprio poco
sai. È la nota del portiere, saranno quattro cinquemila lire.»
Erano in realtà
cinquemila e duecento. Pagò. Tornò fuori. Propose a lei, siccome non era ancora
mezzogiorno, di partire subito, lui nel pomeriggio doveva essere in studio.
Invece di mangiare là a Modena potevano benissimo fermarsi a Parma, anche a Parma
c’erano dei buoni ristoranti.
«Perché?» fece Laide.
«Chi ci obbliga a partire così presto? Possiamo partire dopo colazione, con l’autostrada
fai in tempo benissimo. E poi io vorrei salutare Marcello.»
«Marcello chi
sarebbe?»
«Mio cugino no? Te l’avrò
ripetuto dieci volte.»
«E non l’hai visto
abbastanza in questi giorni tuo cugino?»
«Una volta sola l’ho
visto. Ha tanto di quel lavoro, in cantiere. Spetta che vado a vedere se lo
pesco.»
Lasciò Antonio e si
affacciò al banco del portiere. Per non farsi vedere assillante, lui non si
mosse. La vide, attraverso la porta dell’albergo, che stava telefonando.
Sembrava molto contenta. Rideva. Lui non vedeva l’ora che finisse. Accende una
sigaretta. La vede che continua a telefonare, la vede ridere ancora.
La Laide ha messo giù
il telefono e lo raggiunge sul marciapiede all’ombra della tettoia. Ha un’espressione
felice.
«E allora?»
«Allora, non so se te
l’ho detto, devo andare assolutamente a salutare una famiglia sono stati così
gentili con me tu sapessi non posso mica andarmene via così senza salutarli.»
«Chissà a che ora
andiamo a mangiare allora.»
«Oh per mangiare a me
non mi importa. Si potrebbe fare così. A minuti arriva Marcello e mi accompagna
da questi amici. Tu intanto puoi andare a mangiare. Poi alle due e mezza ci si
trova e si parte subito. Così non ti faccio perdere tempo.»
«Vengo da Milano
apposta a prenderti e tu mi pianti solo come un cane.»
«Su, non arrabbiarti
adesso. Come faccio io, senò, con quegli amici?»
«E poi quella
faccenda di Marcello non mi sfagiola per niente. Mi ha tutta l’aria che sia tuo
cugino come io sono tuo zio.»
Gli occhi di Laide si
sono dilatati. Di sorpresa e di rabbia.
«Ecco, per te sono
tutte puttane. Non si può voler bene a uno senza andarci in letto insieme? Non
lo guarderei neanche più in faccia se non avesse rispetto per me.»
«Non mi vorrai mica
dire che non ti ha mai dato un bacio.»
«Porco di un demonio»
fa lei esasperata «me lo immaginavo sai che avresti piantato questa grana.
Tutti uguali voi uomini. Noi dobbiamo per forza essere tutte delle troie! No,
se proprio vuoi saperlo, Marcello non mi ha baciato mai. È come se fossimo
fratelli. Chiaro?»
«Non mi pare sia il
caso di prenderla così. Dopo tutto tu sei libera di fare il diavolo che vuoi.»
«Ah non bisognerebbe
prendersela! Mi dai della puttana e non dovrei prendermela?»
«E chi ti ha dato
della puttana?»
«Tu, se credi che io
venga con te e poi vada anche con lui. Lui sì, se mai, potrebbe prendersela, se
sapesse che noi due…»
Antonio è
sopraffatto. Antonio le crede, è inverosimile ma Antonio le crede, ha un tale
accento di sincerità e orgoglio offeso, la Laide. Per essere capace di mentire
così dovrebbe essere un mostro, no è impossibile che una ragazzina come lei
riesca a una finzione così perfetta, dovrebbe avere una intelligenza e una
fantasia da Shakespeare.
«Be’» fa Antonio
ammansito «e al tuo Marcello chi hai detto che sono io?»
«Mio zio.»
«Uno zio spuntato
fuori da un momento all’altro?»
«Sì, gli ho detto che
prima tu viaggiavi, che eri all’estero.»
«E lui ci ha creduto?»
«Perché non avrebbe
dovuto credere? Non sono mica tutti come te. Ma aspetta… mi pare che sia lui.»