da Uomini e no – Elio Vittorini
XCIX.
«Viva che cosa?» Manera disse.
Tutti i militi del suo gruppo erano lì ancora: quello che aveva parlato
per primo, e quello che aveva parlato per terzo: il Primo, il Terzo, il
Quarto, il Quinto.
«Sono comunisti» disse il Terzo. «Non sono comunisti?»
«Comunisti o quasi» il Primo disse.
«Se non lo sono lo diventeranno» disse, e rideva, il quinto.
«E dunque!» disse il Terzo. «Hanno voluto dire viva il comunismo».
«Chi lo sa» il Quinto disse.
Manera guardava, verso l’altro lato del cortile, Giulaj.
«Io non so» egli disse.
Aveva voluto dire viva il comunismo, Giulaj?
Anche il capitano guardava Giulaj. Si era voltato subito al suo viva:
lo guardò a lungo, con la seria attenzione di prima, e gli chiese piano:
«A chi, viva?»
Giulaj non rispose, stava sempre appoggiato al muro, e sempre si
strofinava, l’uno contro l’altro, i piedi calzati di pantofole.
«Io tuo amico» disse a Manera il Primo «l’ha scampata per miracolo».
«Mah!» Manera disse. «Credo che non abbia fatto nulla».
«Pure ho paura che guasti le cose» il Quarto disse.
«Perché?» Manera chiese.
Il capitano non si avvicinò a Giulaj; lo chiamò. Giulaj si staccò, con
le spalle, dal muro, ma vi rimase appoggiato con uno dei piedi che aveva
a poco a poco sollevato da terra fin quasi all’altezza delle ginocchia.
«Non lo vedi» disse il Quinto «come si comporta?»
Di nuovo il capitano lo chiamò.
«Vieni qui» gli disse.
E Giulaj lasciò il muro anche col piede.
«Sei tu» il capitano disse «che hai ucciso la mia cagna Greta?»
«Capitano» Giulaj cominciò.
Egli voleva raccontare che cos’era accaduto, ma il capitano ripeté la domanda. «Sei stato tu?» domandò.
«Sono stato io» Giulaj rispose.
Vedeva serietà in quell’uomo, e per questa serietà nella sua faccia, non per altro, gli pareva che dovesse rispondergli.
«Era» soggiunse «vostra?»
Il capitano aveva un frustino in mano; sottile, con un’orecchia di
cuoio. Si voltò, e chiamò il ragazzo delle S.S. che teneva al guinzaglio
i cani.
«Führe die Hunde her», gli disse in tedesco.
Il ragazzo biondo gli portò i due cani, Blut, e la lupa nera.
«Gudrun» disse il capitano. «Kaptän Blut». Si chinò su di loro a
liberarli dal guinzaglio, e intanto che li liberava li accarezzò.
«Gudrun» disse di nuovo. «Gudrun». Strinse i suoi denti, carezzando i
cani, fino a farseli risuonare come se rompesse noci in bocca: poi
liberò i cani della museruola.
«Anche questi due cani» disse a Giulaj «sono miei».
«Ma che cosa vuol fare?» Manera disse.
Coi suoi quattro compagni militi egli era sull’altro lato del cortile,
il cortile era quasi buio, e da un lato all’altro si vedeva ormai poco,
né si sentiva tutto quello che veniva detto.
«Avete molti cani?» Giulaj domandò.
«Molti» disse il capitano «centinaia».
Si avvicinò a Giulaj e gli strappò via la giacca, mise a nudo le maniche a brandelli della camicia.
«Che hai sulle braccia?» chiese.
Giulaj aveva segni rossi sulle braccia, sotto gli strappi.
«È stato in caserma» rispose.
«Te l’hanno fatto in caserma?» disse il capitano. Lo guardò, soggiunse:
«E questi segni sul collo te li hanno fatti pure in caserma?».
«Questo è stato in piazza» Giulaj rispose.
I due cani annusavano i piedi di Giulaj, ed egli se li mise, pur senza avere dove appoggiarsi, l’uno sull’altro.
Il capitano diede ai cani la giacca di Giulaj. «Spogliati» poi gli disse.
«Come, capitano?» Giulaj disse. «Debbo spogliarmi?» Egli era, forse,
arrossito; ma non si vedeva, in quell’aria scura. «Debbo spogliarmi?»
disse.
Cominciò a spogliarsi e pensava che il capitano volesse
vedere come lo avessero pestato in caserma. Era la sua grande serietà
che lo vinceva.
«Ma perché? Fa un po’ freddo» disse.
«Già» disse il capitano.
C.
Lentamente, Giulaj si spogliava, e il capitano prendeva i suoi stracci, li gettava ai cani.
«Strano» Manera disse. «Ma che gli vuol fare?»
«Dicono» disse il Terzo «che sia un burlone».
«E che burla vuol fargli?» Manera disse.
I cani annusavano gli indumenti; Gudrun si mise a lacerare la giacca.
«Perché» disse Giulaj «date la mia roba ai cani?»
Si chinò per togliere a Gudrun la sua giacca. «Me la strappano» disse.
Ma Gudrun saltò, ringhiando, contro di lui; lo fece indietreggiare.
«Ja» gridò il capitano. «Fange ihn!»
«Che dice?» Manera disse.
Ringhiando, Gudrun, le zampe sulla giacca, ricominciò a lacerare la vecchia stoffa impregnata dell’uomo.
Essa si accontentava di questo, ora.
«Fange ihn!» ordinò di nuovo il capitano.
Ma la cagna Gudrun non eseguí. Lacerava rabbiosa la vecchia giacca, e anche portò via la camicia a Blut che l’annusava.
«Non ti preoccupare» disse Manera a Giulaj. «Ti darà il capitano altro da vestirti».
Tutti e cinque i militi si erano avvicinati per vedere; facevano ormai
cerchio. Guardavano Giulaj, ormai seminudo, e avevano già voglia di
riderne; guardavano i cani, Blut come annusava, Gudrun come lacerava; e
già ridevano.
«Oh!» disse il Primo.
«Oh! oh!» disse il Terzo.
A grandi passi, dalla luce d’una porta, tornò nel cortile l’uomo dal
grande cappello e dallo scudiscio nero. Guardò un momento quello che
accadeva, poi andò al suo posto; si avvicinò al capitano.
«Telefonano se non si può rimandare a domattina»
egli disse.
«E perché?»
«Troppo buio».
«Troppo che cosa?»
«Buio. Non possono eseguire».
«Buio?» il capitano disse. «Accendano un paio di riflettori. Non hanno riflettori all’Arena?»
Si mosse per andare a telefonare lui.
Però tornò indietro dai due passi che aveva fatto, e rimise il guinzaglio ai cani, li diede di nuovo al ragazzo delle S.S.
«Non temere» disse a Giulaj il Manera.
Giulaj era solo in mutandine, con le pantofole ai piedi.
«Ma io ho freddo» rispose.
Stava dove il capitano lo aveva lasciato, e continuamente si passava le
mani sul petto, sull’addome, sulle spalle, e l’un piede o l’altro
sull’opposta gamba, fin dove poteva arrivare. Faceva ridere, e i militi
ridevano. Non troppo, ma ridevano.
«Oh! oh!» ridevano.
E, al
guinzaglio, i due cani, l’uno lacerava pur sempre giacca e camicia,
accovacciato in terra. Blut si alzava e si sedeva, girava intorno a se
stesso, annusava l’aria, guaiva.
L’altro, dal grande cappello e dallo scudiscio, guardava perplesso tutto questo, come per rendersi conto.
Che novità era questa?
Guardava.
«Ma quanto vuol tenermi cosí?» Giulaj disse. «Io ho freddo».
«Non temere» Manera gli disse.
«Ma che cosa vuol farmi?»
«Niente, Giulaj. Ormai è passata».
«Ma io ho freddo. Morirò dal freddo».
«Vuol farti solo paura» Manera disse.
Il capitano ritornò.
CI.
Egli guardò i militi che facevano cerchio, Giulaj in mutandine, e si
chinò a liberare i cani, di nuovo, dal guinzaglio. Restò, tra i due
cani, chino, grattando loro nel pelo della nuca.
«Perché non ti sei spogliato?» chiese a Giulaj.
«Capitano!» Giulaj rispose. «Sono nudo!»
Col frustino dall’orecchia di cuoio Clemm indicò le mutande. «Hai ancora questo!»
«Debbo togliermi» disse Giulaj «anche le mutande?»
Quando l’uomo fu nudo del tutto, con solo le calze e le pantofole ai piedi, il capitano gli chiese: «Quanti anni hai?».
«Ventisette» Giulaj rispose.
«Ah!» il capitano disse. Lo interrogava, da chino, tra i due cani fermi
sotto le sue dita. «Ventisette?» E andò avanti a interrogare. «Abiti a
Milano?»
«Abito a Milano».
«Ma sei di Milano?»
«Sono di Monza».
«Ah! Di Monza! Sei nato a Monza?»
«Sono nato a Monza».
«Monza! Monza! E hai il padre? Hai la madre?»
«Ho la madre. A Monza».
«Una vecchia madre?»
«Una vecchia madre».
«Non abiti con lei?»
«No, capitano. La mia vecchia madre abita a Monza.
Io invece abito qui a Milano».
«Dove abiti qui a Milano?»
«Fuori Porta Garibaldi».
«Capisco» il capitano disse. «In una vecchia casa?»
«In una vecchia casa».
«In una sola vecchia stanza?»
«In una sola vecchia stanza».
«E come vi abiti? Vi abiti solo?»
«Mi sono sposato l’anno scorso, capitano».
«Ah! Sei sposato?»
Egli voleva conoscere che cos’era quello che stava distruggendo; il
vecchio e il vivo, e dal basso, tra i cani, guardava l’uomo nudo davanti
a sé.
«È una giovane moglie che hai?»
«È giovane. Due anni meno di me».
«Ah, cosí? Carina anche?»
«Per me è carina, capitano».
«E un figlio non l’hai già?»
«Non l’ho, capitano».
«Non lo aspetti nemmeno?»
«Nemmeno».
Sembrava che volesse tutto di quell’uomo sotto i suoi colpi. Non che
per lui fosse uno sconosciuto. Che fosse davvero una vita. O voleva
soltanto una ripresa, e riscaldar l’aria di nuovo.
«E il mestiere che fai? Qual è il mestiere che fai?»
«Venditore ambulante».
«Come? Venditore ambulante? Giri e vendi?»
«Giro e vendo».
«Ma guadagni poco o niente».
Qui il capitano parlò ai cani. «Zu!» disse loro. «Zu!» Li lasciò e i due cani si avvicinarono a Giulaj.
«Fange ihn!» egli gridò.
I cani si fermarono ai piedi dell’uomo, gli annusavano le pantofole, ma Gudrun ringhiava anche.
«Vuol farti paura» Manera disse. «Non aver paura».
Giulaj indietreggiava, e si trovò contro il muro. Gudrun gli addentò una pantofola.
«Lasciale la pantofola» Manera disse.
Gudrun si accovacciò con la pantofola tra le zanne, lacerandola nel suo ringhiare.
«Fange ihn!» ordinò a Blut il capitano.
Ma Blut tornò al mucchio di stracci in terra.
«Zu! Zu!» ripeté il capitano. «Fange ihn!»
CII.
Quello dal grande cappello e dallo scudiscio scosse allora il capo.
Egli aveva capito. Fece indietreggiare i militi fino a metà del cortile,
e raccolse uno straccio dal mucchio, lo gettò su Giulaj.
«Zu! Zu! Piglialo!» disse al cane. E al capitano chiese: «Non devono pigliarlo?».
Il cane Blut si era lanciato dietro lo straccio, e ai piedi di Giulaj lo prese da terra dov’era caduto, lo riportò nel mucchio.
«Mica vorranno farglielo mangiare» Manera disse.
I militi ora non ridevano, da qualche minuto.
«Ti pare?» disse il Primo.
«Se volevano toglierlo di mezzo» il Quarto disse «lo mandavano con gli altri all’Arena».
«Perché dovrebbero farlo mangiare dai cani?» disse il Quinto.
«Vogliono solo fargli paura» disse il Primo.
Il capitano aveva strappato a Gudrun la pantofola, e la mise sulla testa dell’uomo.
«Zu! Zu!» disse a Gudrun.
Gudrun si gettò sull’uomo, ma la pantofola cadde, l’uomo gridò, e Gudrun riprese in bocca, ringhiando, la pantofola.
«Oh!» risero i militi.
Risero tutti, e quello dal grande cappello disse: «Non sentono il sangue». Parlò al capitano più da vicino.
«No?» gli disse.
Gli stracci, allora, furono portati via dai ragazzi biondi per un
ordine del capitano, e quello dal grande cappello agitò nel buio il suo
scudiscio, lo fece due o tre volte fischiare.
«Fscí» fischiò lo scudiscio.
Fischiò sull’uomo nudo, sulle sue braccia intrecciate intorno al capo e tutto lui che si abbassava, poi colpì dentro a lui.
L’uomo nudo si tolse le braccia dal capo.
Era caduto e guardava. Guardò chi lo colpiva, sangue gli scorreva sulla faccia, e la cagna Gudrun sentí il sangue.
«Fange ihn! Beisse ihn!» disse il capitano.
Gudrun addentò l’uomo, strappando dalla spalla.
«An die Gurgel» disse il capitano.
CIII.
Era buio, i militi si ritirarono dal cortile, e nel corpo di guardia Manera disse: «Credevo che volesse fargli solo paura».
Si sedettero.
«Perché poi?» disse il Primo. «Strano!»
«Non potevano mandarlo con gli altri all’Arena?» disse il Terzo.
«Forse è uno di quelli di stanotte» il Quarto disse.
«E non potevano mandarlo con gli altri all’Arena?»
«Oh!» Manera disse. «Verrebbe voglia di piantare tutto». «Ci rimetteresti tremila e tanti al mese».
«Non potrei andare nella Todt? Anche nella Todt pagano bene».
«Mica tremila e tanti».
«E poi è lavorare».
«È lavorare molto?»
Sedevano; un po’ in disparte dagli altri militi che erano nel corpo di
guardia, riuniti in quattro da quello che avevano veduto, e parlavano
senza continuità, con pause lunghe; e pur seguivano il loro filo, lo
lasciavano, lo riprendevano.
«Questa» disse il Terzo «è la guerra civile».
«Far mangiare gli uomini dai cani?»
«È uno di quelli di stanotte, senza dubbio».
«Deve aver fatto qualcosa di grosso».
Entrò e si unì loro il Quinto, ch’era rimasto fuori.
«Io non so» Manera disse. «Che poteva fare? Era uno che vendeva castagne».
Il Quinto disse: «Ho saputo».
«Che cosa?»
«Quello che ha fatto».
«Ha ucciso» disse il Quinto «un cane del capitano».
Tacquero di nuovo, a lungo; poi uno ricominciò.
«Certo» disse «quei cani poliziotti valgono molto».
Ricominciarono su questo a parlare. Valevano. Non valevano. Altri militi si avvicinarono, si unirono al discorso.
L’uomo fu dimenticato. E venne l’ora che Manera smontava: si alzò in piedi, stirò le sue membra di milite, sbadigliò.