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31 marzo 2015

Donna - Rabindranath Tagore

Manuela Gonzalez Velazquez - playing the piano (Détail)
Donna - Rabindranath Tagore


Donna, non sei soltanto l'opera di Dio,
ma anche degli uomini, che sempre
ti fanno bella con i loro cuori.

I poetai ti tessono una rete
con fili di dorate fantasie;
i pittori danno alla tua forma
sempre nuova immortalità.
Il mare dona le sue perle,
le miniere il loro oro,
i giardini d'estate i loro fiori
per adornarti, per coprirti,
per renderti sempre più preziosa.
Il desiderio del cuore degli uomini
ha steso la sua gloria
sulla tua giovinezza.
Per metà sei donna,
e per metà sei sogno.

Quel primo giorno in cui tu, amore - Emily Dickinson

Godfried Schalcken - Allegory of Virtue and Riches detail
Quel primo giorno in cui tu, amore - Emily Dickinson

Quel primo giorno in cui tu, amore,
mi lodasti, dicendo che ero forte,
e che sarei potuta diventare
potente, se mi fosse andato a genio-
quel giorno splende al centro, in mezzo agli altri,
come un gioiello tra ori differenti-
il più piccolo, che luceva prima,
e il più grande del mondo.

30 marzo 2015

Ricetta - José Saramago

opera di Raimundo de Madrazo y Garreta
Ricetta - José Saramago


Si prenda un poeta non stanco,
Una nuvola di sogno e un fiore,
Tre gocce di tristezza, un riflesso dorato,
Una vena sanguinante di paura.
Quando l'impasto già bolle e si ritorce
Si aggiunga la luce di un corpo di donna,
Da un pizzico di morte rinforzata,
Che un amore di poeta è così.

29 marzo 2015

Elegia a Donna Giovanna la pazza - Federico Garcia Lorca

 ritratto di Giovanna di Castiglia - Joseph Sequence
 Elegia a Donna Giovanna la pazza - Federico Garcia Lorca


Principessa amorosa senza essere corrisposta.
Garofano scarlatto in valle fonda e spoglia.
La tomba che ti serba stilla la tua tristezza
attraverso quegli occhi che ha aperto sopra il marmo.

Tu eri una colomba dall'anima gigante
il cui nido fu sangue di terra castigliana.
Diffondesti il tuo fuoco su un calice di neve
e al volerlo attizzare ti spezzasti le ali.

Sognavi che il tuo amore fosse come l'infante
che ti segue sommesso raccogliendo il tuo manto.
E anziché fiori, versi, e collane di perle
la Morte ti offrì rose appassite su un ramo.

Portavi sul tuo petto l’incredibile aurora
di Isabel de Segura, Melibea. Il tuo canto,
allodola che guarda spezzarsi l'orizzonte,
diventa d'improvviso monotono e amaro.

fa fremere il tuo grido i pilastri di Burgos.
Spossa la salmodia del coro certosino.
E si scontra con gli echi delle lente campane
perdendosi nell'ombra tremante e lacerato.

Avevi la passione che dà il cielo di Spagna.
Passione del pugnale, dell'occhiaia e del pianto.
Principessa divina del crepuscolo rosso,
con la rocca di ferro e d’acciaio il filato!

Non avesti mai un nido, afflitto madrigale,
né il liuto giullaresco che singhiozza lontano.
Fanciullo il tuo giullare, dalle squame d'argento
e un'eco di tromba il suo accento amoroso.

E tuttavia eri nata apposta per amare,
fatta per i sospiri, le carezze e i deliqui.
Per piangere tristezza appoggiata al petto amato
disfogliando una rosa d’odori tra le labbra.

Per guardare la luna ricamata sul fiume
sentir la nostalgia che il gregge trascina.
E guardare gli eterni giardini delle ombre.
Oh bruna principessa che dormi sotto il marmo!

Sono i tuoi occhi neri aperti nella luce?
O serpenti si avvinghiano sui tuoi seni spossati … ?
Quale fine i tuoi baci lanciati contro il vento?
Che fu della tristezza del tuo amore malnato?
Nello scrigno di piombo, fra le ossa del tuo scheletro,
il tuo cuore sarà andato in mille pezzi.

E Granada ti serba come una reliquia,
oh bruna principessa, che dormi sotto il marmo!
Eloisa e Giulietta furono due margherite
ma tu fosti un garofano scarlatto insanguinato
che venne dalla terra dorata di Castiglia
a dormire tra neve e casti cipressi.

Granada era il tuo letto di morte, Donna Juana,
i cipressi i tuoi ceri, la sierra il tuo retablo.
Un retablo di neve che calmi le tue ansie
e con l'acqua del Dauro che ti passa vicino!

Granada era il tuo letto di morte, Donna  Juana,
quella di torri antiche e del giardino inquieto,
quella d’edera morta fissa sui muri rossi,
quella di nebbia azzurra e del mirto romantico.

Principessa amorosa e neanche corrisposta.
Garofano scarlatto in valle fonda e spoglia.
La tomba che ti serba stilla la tua tristezza
attraverso quegli occhi che ha aperto sopra il marmo.



Elegie Duinesi VII – Rainer Maria Rilke

Venere nella conchiglia - Giuseppe Bezzuoli

Elegie Duinesi VII – Rainer Maria Rilke

Finito è il tempo del corteggiamento, voce matura, che la natura
del tuo grido non sia più il; corteggiare, certo,
tu lanceresti un puro richiamo come l’uccello,
quando la stagione che avanza lo fa alzare, quasi dimentico
di essere un misero animale e non solamente un cuore
gettato nel sereno, nell’intimo dei cieli. Come lui,
lanceresti il tuo richiamo d’amore, senza dubbio – così che, ancora invisibile,
silenziosa, ti senta l’amica, nella quale una risposta
si sveglia lenta e nell’ascolto si appassiona –
la sua emozione accesa dall’ardimento della tua.
                               
Oh e la primavera lo accoglierebbe -, non v’è luogo
In cui non risuoni l’eco di una annunciazione. Prima un’esile nota
come una domanda che, con la quiete cresce,
aumenta nel silenzio l’affermazione pura del giorno.
Poi, per gradi, il richiamo sale fino al sognato
tempio del futuro -; poi il trillo, fontana
che con la pressione del getto anticipa la cascata
in un gioco pieno di promesse … e, imminente, l’estate.

Non solo i mattini tutti dell’estate -, non solo
come si trasformano nel giorno e splendono di cominciamento.
Non solo i giorni che sono teneri coi fiori, e in alto,
cogli alberi formati, vigorosi ed immensi.
Non solo il fervore di queste energie spiegate,
non solo i sentieri, non solo i prati, la sera,
non solo dopo un temporale tardivo, il respiro della schiarita,
non solo il sonno che si approssima e un presagio, la sera …
ma le notti! Ma le notti sublimi dell’estate,
ma le stelle, le stelle della terra.
Oh essere morti una volta e conoscerle infinitamente
Tutte le stelle: perché come, come, come dimenticarle.

Vedi, qui chiamerei l’innamorata. Ma solo lei
verrebbe … Verrebbero in tante da fragili tombe
e starebbero là … Perché, come potrei limitare il grido,
come, dopo averlo lanciato? I sommersi cercano
sempre ancora la terra -. Voi ragazzi, una cosa di qui
vissuta pienamente una volta, conterebbe per molte.
Non pensate che il destino sia più che lo spessore dell’infanzia;
quante volte sorpassaste l’amato, ansimando,
ansimando dopo una corsa estatica, verso nulla, all’aperto.

Essere qui è stupendo. Voi lo sapevate, ragazze, anche voi,
che sembravate mancare di tutto e sprofondaste -, voi, nei peggiori
vicoli della città, guastandovi o aperte
al degrado. Poiché ciascuna ebbe un’ora, forse neanche
un’ora intera, qualcosa appena misurabile
con la misura del tempo, tra due istanti -, là anche lei conobbe
un’esistenza. Tutto. Le venne piene di esistenza.
Solo, noi dimentichiamo troppo facilmente quello che il vicino
Che ride non ci invidia o non ci convalida. Noi la vogliamo innalzare
visibilmente, quando invece la visibilità più visibile
ci si manifesta solo quando la trasformiamo dentro.
Dentro, amore, sarà il mondo, e non altrove. La nostra
vita va avanti per trasformazioni. E a poco a poco
l’esterno scompare. Dove una volta c’era una casa durevole
emerge una struttura inventata, di sghembo, interamente
nell’ambito del pensabile, come se fosse ancora tutta nel cervello.
Lo spirito dei tempi accumula vaste riserve di energia, informe,
come l’impulso elettrico che trae da ogni cosa.
Il tempio non lo conosce più. Questa larghezza, quella del cuore,
la serbiamo ora più segretamente. Si: dove una cosa ancora sopravvive,
una cosa una volta pregata, una cosa servita, in ginocchio -,
passa così com’è nell’invisibile.
Molti non la percepiscono più, però, senza il vantaggio
di costruirla adesso nell’intimo, con statue e pilastri, più grande!

Ogni girata opaca del mondo ha i suoi diseredati,
cui il passato non appartiene più, e ciò che è prossimo non ancora.
Perché anche ciò che è prossimo è lontano per gli uomini. Noi
non ci lasceremo turbare da questo; rafforzi in noi il mantenimento
della forma ancora riconosciuta. – Questa visse una volta tra gli uomini,
visse nel mezzo del destino – devastante -, nel mezzo
del non-saper-dove visse, come fosse esistenza, e curvò stelle
verso di sé da cieli sicuri. Angelo,
anche a te la mostro, ecco! Che nel tuo sguardo
sia salvata una volta per tutte, ora finalmente dritta.
Colonne, pilastri, la sfinge,la grigia aspirazione verso l’alto,
di una città sconosciuta o che scompare, del duomo.

Non era stupendo? Oh angelo, strabilia, perché noi siamo,
noi, o tu che sei grande, racconta che noi siamo stati capaci di tanto, il fiato
non mi basta per lodare. Poiché in verità
non abbiamo trascurato gli spazi, questi rassicuranti, questi
nostri spazi. (Come devono essere terribilmente grandi,
che dopo millenni non straripano con la nostre sensazioni.)
ma una torre era grande, non è vero? Oh angelo, lo era -,
grande anche quando vicina a te? Chartres era grande -, e la musica
arrivava ancora più in alto e ci superava. E pure
anche solo un’innamorata -, sola alla finestra, di notte …
non ti arriva forse alle ginocchia -?
                                   Non credere che io non ti corteggi.
Angelo, e se anche ti corteggiassi! Tu non vieni. Perché la mia
chiamata è sempre piena di altrove; contro una corrente così forte
non puoi avanzare. Il mio grido
è come un braccio teso. E la sua mano alzata
e aperta ad afferrare, aperta resta,
come a difesa e a monito, davanti a te,
o inafferrabile, spalancata.

Acqua al mulino – Mary Dorcey

opera di Omar Ortiz


Acqua al mulino – Mary Dorcey

È tutta acqua al mulino,
dici, o almeno
è così che mi consolo
per aver perso così
tanto del tuo prezioso
tempo. Devo ricordare
alla mente, consapevole,
che chi scrive può
usare tutto.

Siedo sul bordo
del letto d’ospedale,
porto il cucchiaio
alla tua bocca.
Niente si butta,
dici,
nessuna esperienza,
per quanto terribile –
assolutamente superflua.
Ti pulisco il mento
col fazzoletto.
Non è vero?
Mi chiedi,
volendo che sia così.

Questo suggerisci.
E io decido
di fare in modo che sia vero –
prendere questo dolore –
questa perdita irreparabile,
la cancellazione
furtiva
di cultura e passato,
questa banale e
inespressa sofferenza.
E metterli all’opera.
Prendere le tue risate,
la tua confusione, gli
improvvisi lampi di visione,
la tua cupa ironia –
e plasmarli
affinandoli
in un artefatto,
qualcosa
che puoi prendere
e lasciare.
Qualcosa
su cui puoi posare lo sguardo
e da cui puoi distoglierlo.

Non  come tutto questo –
Questo subdolo esproprio,
questa infame dipendenza
e paura, che
nemmeno il tuo umorismo da patibolo,
e quel
retaggio di famiglia –
l’orgoglio –
riusciamo a mascherare.
E che una volta visto
non possiamo smettere di vedere.

E così decido
di usare tutto – lo
scempio e le offese,
accumulati giorno dopo giorno sulle
rovine di sé.
Renderli utili –
come un venditore
di rottami e ossa –
portare l’acqua al mulino.
Per il tuo bene –
per il mio.