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17 giugno 2017

Dice Euridice – Horacio Castillo

Arno Breker - Orpheus and Eurydice

Dice Euridice – Horacio Castillo

Mi hanno dominato l’ansia e l’inquietudine,
quando ho saputo che saresti venuto:
l’orrore che mi avresti visto così, con un velo d’ombra,
i capelli senza lucentezza – i capelli che il sole non si stancava di dorare.
E il terrore che non fossi lo stesso – quello che restava nella mia memoria –
e allo stesso tempo la curiosità di vedere di nuovo un essere vivente.

È da tanto che nessuno veniva qui,
tanto che nessuno si portava via un’anima o un cane,
che quando ho udito i tuoi passi e la tua voce che mi chiamava,
quando infine ti ho stretto, più che te stavo abbracciando la vita.
Il tuo calore poi mi ha condensato, mi ha seccata come un vaso,
e ho camminato per il corridoio buio
un’altra volta con quella macchina che mi rimbombava in petto
e un carbone acceso in mezzo alle gambe.
Ho camminato al tuo braccio, immaginando già la luce,
gli alberi accanto ai quali passeggiavamo,
la casa piena di specchi
dove galleggiavamo come due annegati.
Fino a quando all’improvviso il tuo passo si è fatto nervoso,
il tuo pensiero si è impaurito come un cavallo,
e ho visto che cercavi di staccarti da me,
di liberarti dalla trappola della materia mortale.
“Non te ne andare – ho supplicato – non abbandonarmi qui,
lasciami vedere ancora le nuvole e il sole,
liberami per il mondo come una puledra tracia”.

Ma tu già correvi verso l’uscita,
e per sette giorni e sette notti ho sentito come piangevi,
come cantavi sulla riva del fiume infernale
la nostra vecchia canzone: “Ciò che è perduto, solo ciò che è perduto, rimane”.

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