Vincent Van Gogh - Campo di Granoturco
da Feria d’agosto – Cesare Pavese
Il campo di granturco
Il giorno che mi
fermai ai piedi di un campo di granturco e ascoltai il fruscio dei lunghi steli
secchi mossi nell'aria, ricordai qualcosa che da tempo avevo dimenticato.
Dietro il campo, una terra in salita, c'era il cielo vuoto. «Quest'è un luogo
da ritornarci», dissi, e scappai quasi subito, sulla bicicletta, come se
dovessi portare la notizia a qualcuno che stesse lontano. Ero io che stavo
lontano, lontano da tutti i campi di granturco e da tutti i cieli vuoti. Quel
giorno fu un campo; avrebbe potuto essere una roccia impendente sopra una
strada, un albero isolato alla svolta di un colle, una vite sul ciglio di un
balzo. Certi colloqui remoti si rapprendono e concretano nel tempo in figure
naturali. Queste figure io non le scelgo: sanno esse sorgere, trovarsi sulla
mia strada al momento giusto, quando meno ci penso. Non c'è persona di mia
conoscenza che abbia un tatto come il loro.
Quel che mi dice il
campo di granturco nei brevi istanti che oso contemplarlo, è ciò che dice chi
si è fatto aspettare e senza di lui non si poteva far nulla. «Eccomi», dice
semplicemente chi si è fatto aspettare, ma nessuno gli toglie lo sguardo
astioso che gli viene gettato come a un padrone. Invece, al cielo tra gli steli
bassi do un'occhiata furtiva, come chi guarda di là dall'oggetto quasi in
attesa che questo si sveli da sé, ben sapendo che nulla ci si può ripromettere
che esso già non contenga, e che un gesto troppo brusco potrebbe farne
traboccare malamente ogni cosa. Nulla mi deve quel campo, perché io possa far
altro che tacere e lasciarlo entrare in me stesso. E il campo, e gli steli
secchi, a poco a poco mi frusciano e mi si fermano in cuore. Tra noi non
occorrono parole. Le parole sono state fatte molti anni fa.
Quando veramente? non
so. E nemmeno so che cosa potevano essersi detto, un campo di granoturco e un
ragazzo. Ma un giorno mi ero certo fermato - come se con me si fermasse il
tempo - e poi il giorno dopo, e un altro ancora, per tutta una stagione e una
vita, davanti a un simile campo; e quello era stato un limite, un orizzonte
familiare attraverso cui le colline, basse tant'erano remote, trasparivano come
visi a una finestra. Ogni volta che avevo osato un passo dentro la selva
gialla, il campo doveva avermi accolto con la sua voce crepitante e assolata; e
le mie risposte erano state i gesti cauti, a volte bruschi, con cui scostavo le
foglie taglienti, mi chinavo ai convolvoli, e di là dagli steli alti ficcavo lo
sguardo al vuoto del cielo. C'era in quel crepitìo un silenzio mortale, di
luogo chiuso e deserto, che schiudeva nel cielo lontano una promessa di vita
ignota, impervia e seducente come le colline.
Che il tempo allora
si sia fermato lo so perché oggi ancora davanti al campo lo ritrovo intatto. È
un fruscio immobile. Capisco d'avere innanzi una certezza, di avere come
toccato il fondo di un lago che mi attendeva, eternamente uguale. L'unica
differenza è che allora osavo gesti bruschi, penetravo nel campo gettando un
grido alle colline familiari che mi pareva mi attendessero. Allora ero un
bambino, e tutto è morto di quel bambino tranne questo grido.
La stagione di quel
campo è l'autunno, quando tutto si ridesta nelle campagne dietro ai filari di
granturco. Si odono voci, si fanno raccolti, di notte si accendono fuochi.
L'immobilità del campo contiene anche queste cose, ma come a una certa
distanza, come promesse intravedute fra i rami. Il disseccarsi delle foglie
apre sempre maggiori tratti di cielo, rivela più nudamente le colline lontane.
Si pensa anche a quel che c'è dietro, e alle presenze notturne sul ciglione
della Selva. Sale a volte nel ricordo il crepitio delle foglie gialle, e
sgomenta come il trapestare di un passo ignoto e temuto, come il dibattersi di
corpi in lotta. Ormai, nella distanza, sono una cosa sola i falò notturni sui
colli e l'imbrunire fra gli steli vaghi del campo. Rassicura soltanto il
pensiero che chi si è buttato a terra nascondendosi è il ragazzo, e che dagli
steli pendono grosse pannocchie che i contadini verranno a raccogliere domani.
E domani il ragazzo non ci sarà più.
Queste cose accadono
ogni volta che mi fermo davanti al campo che mi aspetta. È come se parlassi con
lui, benché il colloquio si sia svolto molti anni fa e se ne siano perdute
anche le parole. A me basta quell'occhiata furtiva che ho detto, e il cielo
vuoto si popola di colline e di parvenze.
Finalmente dell'ottima poesia (secondo me, ovviamente!)
RispondiEliminaGrazie!
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