La nutrice
Certo che me lo
ricordo quel giorno. Mi ricordo tutto di quel giorno. E solo quello voglio
ricordare. Arrivò Ettore, entrò dalle porte Scee, si fermò sotto la grande quercia.
Tutte le spose e le figlie dei guerrieri troiani corsero verso di lui: volevano
sapere notizie dei loro figli e fratelli e mariti. Ma lui disse solo: pregate
gli dei, perché una grande sciagura incombe su di noi. Poi corse verso la
reggia di Priamo.
L'immensa reggia, dai
portici splendenti. Che ricchezza... Da una parte cinquanta stanze di pietra
chiara, costruite una accanto all'altra: ci dormivano i figli maschi di Priamo,
con le loro spose. E dall'altra dodici stanze di pietra chiara, costruite una accanto
all'altra: ci dormivano le figlie di Priamo con i loro sposi. Ettore entrò ed Ecuba,
la sua dolcissima madre, gli andò incontro. Lo prese per mano e gli disse: "Figlio,
perché sei qui, perché hai lasciato la battaglia? Gli odiosi Achei vi schiacciano,
là, contro le mura. Sei venuto per alzare le braccia verso Zeus, dall'alto della
rocca? Lascia che ti dia del vino perché tu ne beva e lo offra agli dei. Il
vino dà forza all'uomo stanco e tu sei sfinito, tu che combatti per difendere
tutti noi".
Ma Ettore disse di
no, le rispose che non voleva vino, non voleva perdere la sua forza e
dimenticare la battaglia. Le disse che neanche poteva offrirlo agli dei, perché
le sue mani erano sporche di polvere e sangue. "Va' tu al tempio di
Atena", le disse, "Raduna tutte le donne più anziane e sali lassù.
Prendi il peplo più bello, il più grande che hai nella reggia, quello che hai
più caro, e va' a deporlo sulle ginocchia di Atena, la dea predatrice. Chiedile
di avere pietà delle spose troiane e dei loro giovani figli, e supplicala di allontanare
da noi Diomede, il figlio di Tideo, perché con troppa ferocia combatte, e
ovunque sparge terrore. "Allora la madre raccolse le ancelle e le mandı a
cercare per la città tutte le nobili anziane. Poi entrò nel talamo profumato
dove conservava i pepli ricamati dalle donne di Sidone, i pepli che il divino
Paride aveva portato dal suo viaggio, quando era tornato con Elena,
attraversando l'ampio mare. E, fra tutti i pepli, Ecuba scelse il più bello e
grande, tutto ricamato, splendeva come una stella: e voglio dirvi questo: era
l'ultimo, quello che sotto tutti gli altri, giaceva. Lo prese e si mise in
cammino con le altre donne verso il tempio di Atena.
Io non c'ero,
veramente. Ma queste cose le so perché si parlava sempre, tra di noi, le
ancelle, e tutte le serve della casa... E mi dissero che Ettore, quando lasciò
la madre, andò a cercare Paride, per riportarlo in battaglia. Lo trovò nel
talamo, che lucidava le sue armi bellissime, lo scudo, la corazza, l'arco
ricurvo. Nella stanza c'era anche Elena. Stava in mezzo alle ancelle.
Lavoravano, tutte, con arte mirabile. Ettore entrò è stringeva ancora in pugno
la lancia, splendeva la punta di bronzo è e appena vide Paride si mise a
urlargli "Miserabile, cosa stai qui a goderti il tuo rancore mentre i
guerrieri combattono intorno alle alte mura di Troia? Proprio tu che sei la causa
di questa guerra. Muoviti, vieni a combattere, o ben presto vedrai la tua città
bruciare nel fuoco nemico".
Paride... "Non
hai torto, Ettore, a rimproverarmi", disse. "Ma cerca di capirmi. Non
stavo qui a covare astio per i Troiani, ma a vivere il mio dolore. Anche Elena,
con dolcezza, mi dice che devo ritornare in battaglia, e forse è la cosa
migliore che posso fare. Aspettami, il tempo di indossare le armi. O va' avanti
e io ti raggiungerò."
Ettore neanche gli
rispose. Nel silenzio, tutte le ancelle udirono, dolcissima, la voce di Elena.
"Ettore", diceva, "Come vorrei che il giorno in cui la madre mi
diede alla luce una tempesta di vento mi avesse portata lontano, sulla cima di
una montagna, o fra le onde del mare, prima che tutto questo accadesse. Come
vorrei che almeno la sorte mi avesse riservato un uomo capace di sentire il
biasimo e il disprezzo degli altri. Ma Paride non ha un animo forte, e non lo
avrà mai. Vieni qui, Ettore, e siediti accanto a me. Il tuo cuore è oppresso
dagli affanni ed è mia la colpa, mia e di Paride e della nostra follia.
Riposati accanto a me. Sai, la tristezza è il nostro destino: ma è per questo
che le nostre vite saranno cantate per sempre, da tutti gli uomini che verranno."
Ettore non si mosse.
"Non chiedermi di rimanere qui, Elena", disse. "Anche se lo fai per
me, non chiedermelo. Lasciami andare a casa, piuttosto, perché voglio vedere la
mia sposa, e mio figlio: la mia famiglia. I Troiani che combattono, laggiù, mi
stanno aspettando, ma io voglio ancora passare da loro, voglio vederli: perché
davvero non so se mai tornerò un'altra volta qui, vivo, prima che gli Achei mi
uccidano." Così disse. E si allontanò. Venne verso casa, ma non ci trovò.
Chiese alle schiave dove eravamo, e quelle gli dissero che Andromaca era corsa
sulla torre di Ilio, aveva sentito che i Troiani stavano cedendo alla forza
degli Achei ed era corsa sulla torre, e la nutrice era corsa con lei,
stringendo tra le braccia il piccolo Astianatte. E adesso erano là, a vagare
come pazze verso le mura. Ettore non disse una parola. Si voltò e corse
velocemente verso le porte Scee, riattraversando la città. Se ne stava ormai per
uscire di nuovo dalle mura e tornare in battaglia quando Andromaca lo vide e
gli andò incontro per fermarlo, e io dietro di lei, con il bambino tra le
braccia, piccolo, tenero, l'amato figlio di Ettore, bello come una stella. Ci
vide, Ettore. E si fermò. E sorrise. Questo l'ho proprio visto coi miei occhi.
Ero lì. Ettore sorrise. E Andromaca gli andò vicino e lo prese per mano.
Piangeva e diceva "Infelice, la tua forza sarà la tua rovina. Non hai
pietà di tuo figlio, che è ancora un bambino, e di me, sventurata? Vuoi tornare
lı fuori, dove gli Achei ti balzeranno addosso, tutti insieme, e ti
uccideranno?".
Piangeva. E poi
disse: "Ettore, se io ti perdo, morire sarı meglio che rimanere viva: perché
non ci sarà conforto, per me, solo dolore. Io non ho padre, non ho madre, non
ho più nessuno. Il padre me l'ha ucciso Achille quando distrusse Tebe dalle
alte porte. Avevo sette fratelli e tutti li uccise Achille, nello stesso
giorno, mentre pascolavano i buoi, lenti, e le candide pecore. E mia madre,
Achille se la portò via, e poi pagammo per riaverla, e lei tornò, ma per morire
di dolore, d'improvviso, nella nostra casa. Ettore, tu mi sei padre, e madre, e
fratello, e sei il mio sposo, giovane: abbi pietà di me, resta qui, sulla
torre. Non combattere in campo aperto, fa' arretrare l'esercito vicino al fico
selvatico, a difendere l'unico punto debole delle mura, dove giı tre volte
hanno tentato l'assalto gli Achei, spinti dal loro coraggio".
Ma Ettore rispose:
"So anch'io tutto questo, donna. Ma la vergogna che proverei a tenermi
lontano dalla battaglia sarebbe troppo grande. Io sono cresciuto imparando a
essere forte sempre, e a combattere ogni battaglia in prima fila, per la gloria
di mio padre e per la mia. Come potrebbe il mio cuore, adesso, lasciarmi
fuggire? Io lo so bene che verrà il giorno in cui perirà la sacra città di
Troia, e con essa Priamo e la gente di Priamo. E se immagino quel giorno non è
il dolore dei Troiani, che immagino, né quello di mio padre, di mia madre, o
dei miei fratelli, caduti nella polvere uccisi dai nemici. Io, quando immagino
quel giorno, vedo te: vedo un guerriero acheo che ti prende e ti trascina via
in lacrime, ti vedo schiava, ad Argo, mentre tessi le vesti di un'altra donna e
per lei vai a prendere l'acqua alla fonte, ti vedo piangere, e sento la voce di
quelli che guardandoti dicono "Eccola lı la sposa di Ettore, il più forte
di tutti i guerrieri troiani'. Possa io morire prima di saperti schiava. Possa
io essere sotto terra prima di dover udire le tue grida".
Così disse Ettore
glorioso, e poi venne verso di me. Io tenevo suo figlio in braccio, capite? E
lui si avvicinò e fece per prenderlo tra le sue mani. Ma il bambino si strinse al
mio petto, scoppiando a piangere, lo aveva impaurito vedere il padre, lo spaventavano
quelle armi di bronzo, e il pennacchio sull'elmo, lo vedeva ondeggiare, spaventoso,
e così scoppiò a piangere. E mi ricordo che allora Ettore e Andromaca si guardarono
e sorrisero. Poi lui si tolse l'elmo e lo posò a terra. Allora il bambino si fece
prendere, e lui lo strinse tra le sue braccia. E lo baciò. E sollevandolo in
alto disse: "Zeus, e voi, divinità del cielo, fate che questo mio figlio
sia come me, più forte fra tutti i Troiani, e signore di Ilio. Fate che la
gente, vedendolo tornare dalla battaglia, dica "è perfino più forte di suo
padre'. Fate che torni un giorno portando le spoglie insanguinate dei nemici, e
fate che sua madre sia lì, quel giorno, a gioire nel suo cuore". E mentre
diceva queste parole mise il figlio tra le braccia di Andromaca. E mi ricordo
che lei sorrideva e piangeva, stringendosi al petto il suo bambino, piangeva e
sorrideva: e guardandola Ettore ebbe pietà di lei, e la accarezzı, e le disse:
"Non affliggerti troppo nel tuo cuore. Nessuno riuscirà a uccidermi se non
lo vorrà il destino; e se il destino lo vorrà, allora pensa che al destino
nessun uomo, una volta che è nato, può sfuggire. Vile o coraggioso che sia. Nessuno.
Ora torna a casa e rimettiti al lavoro, al fuso e al telaio, con le ancelle. Lascia
che alla guerra pensino gli uomini, tutti gli uomini di Ilio, e io più di ogni
altro uomo di Ilio". Poi si chinò e riprese l'elmo da terra, l'elmo dalla
chioma ondeggiante.
Noi tornammo a casa.
Camminando, piangeva, Andromaca, e continuava a voltarsi indietro. Quando le
ancelle la videro arrivare, in tutte loro suscitò una grande tristezza. Tutte
scoppiarono in pianto. Piangevano Ettore, lo piangevano nella sua casa e lo
piangevano mentre ancora era vivo. perché nessuna pensava in cuor suo che vivo
sarebbe tornato dalla battaglia.
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