da Omero, Iliade - Alessandro Baricco
Nestore
Vedemmo Ettore uscire
dalle porte Scee, correndo. Pensammo che fosse tornato a combattere, ma in
verità quel che fece fu una cosa strana. Correva davanti alla prima fila dei
suoi, tenendo la lancia abbassata, per ordinare loro di fermarsi. Allora anche Agamennone
diede ordine a noi Achei di abbassare le armi. I due eserciti si trovarono uno
di fronte all'altro, improvvisamente in silenzio, quasi immobili: sembravano il
mare quando soffia il primo vento, e si increspa appena. In mezzo a quel mare
si mise Ettore e a voce alta parlò.
"Ascoltatemi,
Troiani, e voi, Achei, vi dirò quello che ho nel cuore. Gli dei ci illudono con
le loro promesse ma poi non fanno che condannarci a sofferenze e sventure, e così
andrà avanti fino a che Troia vincerà o sarà presa. E allora io vi dico: se c'è
un principe acheo che ha il coraggio di combattere in duello con me, io lo
sfido: io oggi voglio andare incontro al mio destino." Gli eserciti
rimasero in silenzio. Noi, principi achei, ci guardammo negli occhi: si vedeva
che avevamo paura di accettare la sfida, ma ci vergognavamo di rifiutarla. Alla
fine, si udì la voce di Menelao, furibonda. "Allora, Achei, cosa siete,
delle donnicciole?, non pensate alla vergogna se nessuno di noi accetterà la
sfida? Andate in malora, uomini privi di audacia e di gloria, combatterò io,
per voi, e gli dei decideranno a chi andrà la vittoria." E prese le armi, e
si fece avanti. Noi sapevamo che non aveva speranze, che Ettore era troppo
forte per lui. così lo fermammo.
Agamennone, suo
fratello, lo prese per mano e gli parlò a bassa voce, con dolcezza. "Menelao,
non fare questa pazzia. Non duellare con un uomo che è più forte di te. Perfino
Achille ha paura a scontrarsi con Ettore, e lo vuoi fare tu? Fermati, lascia
che mandiamo qualcun altro." Menelao sapeva in cuor suo che Agamennone
aveva ragione. Lo stette ad ascoltare e gli ubbidì: lasciò che gli scudieri gli
togliessero le armi dalle spalle. Allora io guardai tutti gli altri e dissi
"Ahimè, che dolore colpisce il popolo acheo. Quante lacrime verserebbero i
nostri padri se sapessero che davanti a Ettore tremiamo tutti. Ah, se solo
fossi ancora giovane, e forte, io non avrei paura, vi giuro, e con me dovrebbe
battersi Ettore. Voi avete paura, io non l'avrei". Allora in nove si
fecero avanti, per primo Agamennone, e poi Diomede, i due Aiace, Idomeneo,
Merione, Eurıpilo, Toante, e, per ultimo, Ulisse. Adesso tutti volevano combattere.
"Deciderà la sorte", io dissi. E dentro l'elmo di Agamennone feci mettere
nove tessere, ognuna col simbolo di uno di loro. Agitai l'elmo, e ne estrassi una.
Guardai il simbolo. Poi andai verso Aiace di Telamone, l'unico di noi che aveva
qualche speranza contro Ettore, e gliela diedi. Lui la guardò. capì. E
gettandola a terra disse "Amici, mia è la sorte, mia è la fortuna, e il
mio cuore ride, perché schiaccerà Ettore glorioso. Datemi le mie armi e pregate
per me".
Si vestì di bronzo
accecante. E quando fu pronto andò verso Ettore, a grandi passi, terribile,
agitando la lancia in alto, sulla testa, con un ghigno feroce sul volto. A vederlo,
i Troiani tremarono, tutti, e io so che anche Ettore sentì il cuore impazzire, nel
petto. Ma non poteva più fuggire ormai, aveva lanciato la sfida, e non poteva
più tirarsi indietro. "Ettore", si mise a gridare Aiace, "è ora
che tu scopra che eroi ci sono tra gli Achei, oltre ad Achille lo sterminatore.
Sta nella sua tenda, adesso, il cuor di leone: ma come vedi anche noi siamo
capaci di combattere con te."
"Smettila di
parlare", gli rispose Ettore, "E combatti." Sollevò la lancia e
la scagliò. La punta di bronzo centrò l'enorme scudo di Aiace, squarciò la
placca di bronzo, e poi uno dopo l'altro sette strati di cuoio, e nell'ultimo
andò a fermarsi, proprio nell'ultimo prima di uscire e ferire. Allora fu Aiace
a tirare. La lancia squarciò lo scudo di Ettore, Ettore si piegò su un fianco e
questo lo salvò, la punta di bronzo lo sfiorò soltanto, arrivò a lacerargli la
tunica, ma non lo ferì. Entrambi allora strapparono dagli scudi le lance e si
avventarono uno sull'altro, come leoni feroci. Aiace si proteggeva sotto il suo
enorme scudo, Ettore colpiva ma non riusciva a raggiungerlo. Quando si stancò,
Aiace uscì allo scoperto e lo colpì con la punta della lancia, di striscio, al
collo: vedemmo sgorgare il sangue nero dalla ferita. Un altro si sarebbe
fermato. Ma non Ettore: si piegò a prendere una pietra per terra, enorme, ruvida,
nera, e poi la scagliò contro Aiace: si sentì lo scudo risuonare e il bronzo,
riecheggiare ma Aiace resse il colpo, e a sua volta Sollevò una pietra, ancora
più grande, la fece roteare in aria e poi la scagliò con una violenza
terribile: lo scudo di Ettore volò in aria, Ettore cadde all'indietro, ma
ancora si rialzò, subito, e allora presero le spade, e si avventarono uno
contro l'altro, gridando... E il sole tramontò.
Così due araldi, uno
acheo e uno troiano, si fecero avanti per dividere i due, perché, pur nella
battaglia, è bene obbedire alla notte. Aiace non voleva fermarsi. "E
Ettore che deve decidere, è lui che ha lanciato la sfida." Ed Ettore
decise. "Interrompiamo per oggi la battaglia", disse. "Sei
forte, Aiace, e la tua lancia è la più forte tra tutte quelle degli Achei.
Farai felici i tuoi amici e compagni, tornando, vivo, alla tua tenda, stasera.
E io renderò lieti gli uomini e le donne troiani, che mi vedranno tornare, vivo,
nella grande città di Priamo. E adesso scambiamoci doni preziosi, perché tutti possano
dire: Si sono battuti in duello crudele, ma si sono separati in armonia e in pace."
così disse. E diede in dono ad Aiace una spada dalle borchie d'argento, con
fodero e cinghia
perfetti. E Aiace, a lui, donò una cintura splendente di porpora.
Quella sera, al
banchetto in cui festeggiammo Aiace, lasciai che tutti bevessero e mangiassero,
e poi, quando li vidi stanchi, chiesi ai principi di ascoltarmi. Ero il più vecchio,
e loro rispettavano la mia saggezza. così dissi che dovevamo chiedere ai Troiani
un giorno di tregua, perché noi e loro potessimo raccogliere i nostri morti dal
campo di battaglia. E dissi che dovevamo approfittare di quel giorno per
costruire tutt'intorno alle navi un muro, alto, e un grande fossato, per
metterci al sicuro da un assalto dei Troiani.
"Un muro? Che
bisogno abbiamo di muri, abbiamo gli scudi", disse Diomede. "Io i muri
li abbatto, non li costruisco", disse. A nessuno piaceva, quell'idea. Ci
fu perfino qualcuno che disse "Pensate come si vanterà Achille, quando
saprà che senza di lui abbiamo così paura che ci chiudiamo dietro a un
muro". Ridevano. Ma la verità è che erano giovani, e i giovani hanno
un'idea vecchia della guerra. Onore, bellezza, eroismo. Come il duello tra Ettore
e Aiace: i due principi che prima cercano ferocemente di uccidersi e poi si
scambiano doni. Io ero troppo vecchio per credere ancora in quelle cose. Quella
guerra la vincemmo con un cavallo di legno, immane, riempito di soldati. La
vincemmo con l'inganno, non con la lotta a viso aperto, leale, cavalleresca. E
questo a loro, ai giovani, non piacque mai. Ma io ero vecchio. Ulisse era
vecchio. Noi sapevamo che vecchia era la lunga guerra che stavamo combattendo,
e che un giorno l'avrebbe vinta chi sarebbe stato capace di combatterla in un
modo nuovo.
Quella sera andammo a
dormire senza prendere decisioni e quando ci svegliammo ricevemmo un'ambasciata
dai Troiani. Venne Ideo e ci disse che poiché i Troiani avevano ripreso gli
scontri, dopo il duello tra Paride e Menelao, rompendo i sacri patti, adesso
erano disposti a renderci giustizia restituendo tutte le ricchezze che Paride
aveva portato via con Elena d'Argo. Non la donna, ma le ricchezze si. E disse che
avrebbero aggiunto splendidi doni, per compensarci del tradimento. Avevano paura
che gli dei non perdonassero la loro slealtà, capite? Diomede si alzò e disse "Neanche
se ci restituissero Elena in carne e ossa dovremmo fermarci, amici. Anche uno
sciocco capirebbe che ormai la fine di Troia è vicina". E tutti
applaudimmo, in quel momento sentivamo che aveva ragione lui. così Agamennone
rispose a Ideo che rifiutavamo l'offerta. E poi concordò una tregua di un
giorno, perché noi e i Troiani potessimo recuperare i nostri morti, e darli
alle fiamme, come vuole il rito. E così fu.
Strano giorno di
guerra. Nella grande pianura, sotto il sole che illuminava i campi, se ne
andavano Achei e Troiani, mescolandosi, a cercare i propri morti. Si chinavano
sui corpi sconciati, lavavano via il sangue con l'acqua per poterne riconoscere
i volti, e poi piangendo li caricavano sui carri. In silenzio, col cuore
dolente, li ammucchiavano sulle pire, e rimanevano lı a guardare le alte fiamme
che bruciavano chi, fino al giorno prima, aveva combattuto al loro fianco.
Quando il sole iniziò
a tramontare, io radunai intorno alla pira funebre un gruppo di Achei: e gli
feci costruire il muro, il muro tanto odiato, con torri alte e sicure, e larghe
porte per lasciare entrare e uscire i nostri guerrieri. Lo feci costruire tutt'intorno
alle navi. E feci scavare un profondo fossato, davanti al muro, per tenere
lontani i carri troiani. E solo quando tutto fu finito, ci ritirammo nelle
tende a cogliere il dono del sonno. Nella notte, tuoni terribili scagliò Zeus
dal cielo, ed era un suono di sventura che ci lasciò lividi di terrore.
All'alba del giorno
dopo, prendemmo il pasto, veloci, e poi indossammo le armi. I Troiani uscirono
dalla città, e ci vennero incontro tra un immenso tumulto. In mezzo alla
pianura i due eserciti si scontrarono, nel furore di scudi, di lance, di
corazze di bronzo, tra gemiti e urla, nel dolore degli uccisi e nel trionfo
degli uccisori, mentre la terra si macchiava di sangue. Dall'alba fino a giorno
fatto volarono i colpi da una parte e dall'altra, ma quando il sole fu alto in
mezzo al cielo, allora la sorte della battaglia arrise ai Troiani. Vidi intorno
a me tutti iniziare a indietreggiare, e poi fuggire. Pensai di girare anch'io
il carro, come tutti, ma una freccia scagliata da Paride colpì uno dei miei
cavalli in mezzo alla fronte: si impennò per il dolore, e poi
cadde a terra
travolgendo gli altri due. Con la spada gli tagliai le redini e stavo per richiamare
gli altri cavalli, quando vidi arrivarmi addosso Ettore, sul suo carro lanciato
in mezzo alla mischia. Ero morto. Vidi Ulisse, non lontano da me, stava fuggendo,
anche lui, e allora mi misi a gridare "Ulisse, dove scappi, vuoi farti ammazzare
con una lancia nella schiena?, vigliacco, vieni ad aiutarmi! ". Ma il paziente,
glorioso Ulisse, non volle udirmi, e continuò a correre, verso le navi. Fu Diomede
che venne a salvarmi. arrivò veloce sul carro e mi fece salire con lui. Io presi
le briglie e lanciai i cavalli verso Ettore. E quando fummo abbastanza vicini, Diomede
gli scagliò contro la lancia, con tutta la forza che aveva. Quando vidi il colpo
andare a vuoto, capii che la sorte era contro di noi e che era meglio scappare.
"Scappare, io?", mi disse Diomede. "E poi sapere che Ettore andrà
in giro a vantarsi e a dire che Diomede è scappato davanti a lui?" L'ho
detto, i giovani amano l'onore, e così perdono le guerre. "Diomede, anche
se lo dirà non gli crederanno, perché la gente crede a chi vince, non a chi
perde", e volsi in fuga i cavalli, attraverso il tumulto, con la voce di
Ettore che sfumava dietro di noi, urlando insulti.
Ci ritirammo fino al
fossato e là ci fermammo. Ettore ci incalzava, con tutto il suo esercito, il
terreno era pieno di guerrieri e carri e cavalli. Agamennone urlava, incitando
gli Achei, e tutti gli eroi combattevano, uno al fianco dell'altro. Mi ricordo Teucro,
l'arciere, si nascondeva dietro allo scudo di Aiace, e quando Aiace abbassava lo
scudo, lui prendeva la mira e tirava nel folto dei Troiani. Non mancava un
colpo. Cadevano, i Troiani, uno dopo l'altro, trafitti dalle sue frecce. Tutti
ci mettemmo a gridargli di tirare a Ettore, di mirare a lui, "Non riesco a
colpirlo, quel cane feroce", diceva, due volte ci aveva provato, per due
volte aveva fallito, non fece in tempo a provare una terza, Ettore lo raggiunse
e con una pietra, lo colpì alla spalla, l'arco gli volò via dalle mani, lui
cadde a terra, Aiace lo difese con lo scudo, due uomini riuscirono a prenderlo
e a portarlo lontano dalla furia di Ettore.
Combattevamo, ma non
riuscivamo più a frenarli. Ci spinsero dentro il fossato e poi contro il muro,
Ettore non smetteva di urlare, "Pensano di fermarci con un muro, ma i
nostri carri voleranno su quel muro e non si fermeranno prima di arrivare alle
loro navi e al fuoco che se le divorerà! ". Nulla ci poteva salvare. Ci
salvò il sole. Calò nell'Oceano portando la notte sulla terra feconda. Lo
videro tramontare, con rabbia, gli occhi dei Troiani. Con gioia, i nostri.
Anche la guerra obbedisce alla notte.
Noi ci ritirammo,
dietro al muro, nelle tende, davanti alle navi. Ma Ettore, per la prima volta
in nove lunghi anni di guerra, non riportò l'esercito dentro alle mura della
città. Ordinò che i suoi si accampassero lì, sotto al muro. Dalla città fece portare
buoi e pecore grasse e dolce vino e pane e legna per gli alti fuochi. Il vento
ci portava l'odore dei sacrifici. E noi, che da lontano eravamo venuti per
assediare una città, diventammo città assediata. Per tutta la notte arsero a
migliaia, sotto i nostri occhi, i fuochi dei Troiani, pieni di orgoglio.
Brillavano come brillano le stelle e la luna, nelle notti di cielo aperto,
quando illuminano le vette dei monti e le valli, scaldando di gioia il cuore
del pastore. Nel bagliore delle fiamme vedevamo le ombre dei Troiani popolare
la notte aspettando l'Aurora dal bellissimo trono.
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