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12 dicembre 2017

da Afrodita (Colomba nella natura) – Isabel Allende

Fernando Botero - Picnic

da Afrodita – Isabel Allende
Colomba nella natura

E già che stiamo parlando di bucoliche verdure, viene a proposito la storia vera di una mia amica, della quale ometterò il nome per evitare che mi ammazzi. Chiamiamola Colomba. Ai tempi era una ragazza rubiconda, dalle abbondanti carne rosate e lentigginose, con una chiome di quel colore rossiccio che divenne di moda nel Risorgimento con Tiziano e che oggi si ottiene con gli shampoo. I suoi delicati piedi da ninfs reggevano a stento le imponenti colonne dell gambe, le natiche turbolente,  i perfetti meloni dei seni, il collo con le due sensuali pappagorge e le rotonde braccia da valchiria. Come spesso succede in questi casi, la mia paffuta amica era vegetariana. (Per fare a meno della crne questa gente si riempie di carboidrati.) Il suo professore di Storia dell’arte all’università non poteva staccarle gli occhi di dosso, pazzamente invaghito com’era della sua pelle color latte, della chioma veneziana, dei rotolini di ciccia, delle piccole cavità che spuntavano dalle maniche e di altre che lui immaginava nel tormento delle sue notti insonni in un letto matrimoniale, con la sua sposa alta e secca, una di quelle signore distinte che stanno bene con qualsiasi vestito. (Le detesto.) Il poveruomo mise le sue conoscenze al servizio della sua ossessione e tanto le parlò del Ratto delle sabine di Rubens, del Bacio di Rodin degli Amanti di Picasso e delle Bagnanti di Renoir, Tnti furono i capitoli dell’Amante di Lady Chatterley che le lesse ad alta voce e tante le scatole di cioccolatini che le mise in grembo, che alla fine Colomba, che pur femmina era, accettò l’invito per una gita in campagna. C’è forse qualcosa di più innocente? Ah! Ma il professore non era certo uno che si lasciasse scappare un’opportunità come quella. Ordì le sue trame quasi fosse Machiavelli. Dedusse che lei non avrebbe mai accettato di accompagnarlo in un hotel al primo appuntamento e forse un secondo non ci sarebbe stato: doveva giocarsi le sue carte con un colpo secco, e magistrale. Poteva fare affidamento soltanto su una Due Cavalli, una di quelle macchine di latta pitturata che negli anni sessanta i francesi resero economicamente abbordabili, un’automobile che sembrava un incrocio tra una scatola di biscotti e una sedia a rotelle, in cui solo un contorsionista nano poteva pensare di fare l’amore. Sedurre una persona della stazza di Colomba su una Due Cavalli era un’impresa impossibile. Il picnic rappresentava una soluzione romantica e pratica al tempo stesso. La strategia consisteva nell’attaccare il fronte più sguarnito delle difese dell’alunna: la golosità. Verificò con mille pretesti e giri di parole quali fossero i piatti preferiti dell’amata e, senza farsi scoraggiare dalla questione vegetariana, riempì una graziosa cesta di ghiottonerie afrodisiache: due bottiglie del miglior vino rosé ben freddo, uova sode, pane casereccio, quiche di funghi, insalata di sedano e avocado, carciofi, mais tenero arrostito, frutta aromatica di stagione e ogni sorta di dolce. In appoggio, nel caso in cui ci fosse stato bisogno di ricorrere a estremi rimedi, c’era una piccola scatola di caviale beluga che gli era costata mezzo stipendio, un barattolo di marron glacé sciroppati e due spinelli.
Era un tipo meticoloso, dell Vergine, e quindi si portò anche un cuscino, un plaid e un isetticida.
in un angolo di Plaza de los Libertadores lo attendeva Colomba, tutta vestita di mussola bianca, incooronata da un cappello di paglia italiana guarnito da un grande nastro di seta. Da lontana sembrava un veliero, e da vicino anche. Quando il professore la vide, sentì dileguarsi il peso degli anni, il ricordo della sua distinta consorte e la paura delle conseguenze; al mondo non esisteva che quella carne deliziosa avvolta nella mussola che tremava al minimo movimento, scatenandogli una lussuria selvaggia di cui lui stesso non sapeva capacitarsi. Dopo tutto era un accademico, un uomo di lettere, uno studioso d’arte, un marito, un teorico. Di lussuria, fino a quel momento, non sapeva nulla. Colomba scalò a fatica la fragile Due Cavalli, che si inclinò pericolosamente e che per un attimo sembrò aver sotterrato per sempre i pneumatici nell’asfalto, ma dopo qualche brontolio il nobile veicolo si mise in movimento e iniziò a far girare le ruote in direzione della periferia della città. Durante il tragitto parlarono d’arte e di cibo, più del secondo che della prima. E così, rapiti dalla conversazione e quello splendido mezzogiorno, alla fine giunsero alla meta che il professore aveva preventivamente scelto, un bel pascolo verde vicino a un ruscello fiancheggiato da salici piangenti. Era un luogo solitario, e gli unici testimoni dei loro amori sarebbero stati gli uccellini sui rami e una mucca distratta che ruminava fiori a una certa distanza. Il professore saltò giù dalla Due Cavalli e così fece Colomba, se pur con qualche difficoltà. Mentre lui, diligente, si affannava a stendere la tovaglia all’ombra, a sistemare il cuscino e a dispiegare i tesori della cesta, la sua allieva si era tolta le scarpe e saltellava timorosa sulle rive del ruscello. Una visione celestiale.
Il professore non tardò molto a far accomodare Colomba sul plaid, a farla adgiare sul cuscino e a distendere davanti a lei le saporite prelibatezze della cesta. versò il vino per rinfrescarla e sbucciò un uovo sodo che poi le fece mordicchiare, mentre giocava con le dita dei suoi piedi rotondetti e recitava:

Pollice comprò un ovetto,
Indice lo pelò,
Medio ci mise il sale,
Anulare lo mescolò
e Mignolo, ahi se lo pappò!

Colomba rideva a crepapelle e il professore, incoraggiato, procedette alla somministrazione delle foglie di carciofo, una alla volta, e quando ne ebbe mangiati due, paasò alla quiche ai funghi e poi alle fragole, e subito dopo ai fichi e all’uva, senza mai smettere di punzecchiarla con toccatine qua e là e di recitarle, sudando per l’impazienza, i versi più appassionati di Pablo Neruda.
Tra il sole, il vino, la poesia e lo spinello che accese non appena ebbero finito anche l’ultimo chicco di caviale sotto lo sguardo impavido della ucca che si era avvicinata al teatro delle operazioni, la testa di Colomba prese a girare. Erano a questo punto quando fecero la loro apparizione le prime formiche, attese con impazienza dal professore: erano il pretesto di cui aveva bisogno. Giurò a Colomba che dietro le formiche inevitabilmente sarebbero giunte le api e le zanzare, ma non doveva temere perché proprio per quello si erano portati il liquido repellente. E le i non voleva certamente macchiare di insetticida quel meraviglioso abito… Non si ricordava di quel celbre quadro impressionista, Le dejuner su l’herbre, di quel picnic in cui le donne erano nude e gli uomini vestiti’ No, Colomba non sapeva di cosa stesse parlando, e lui dovette quibdi descriverglielo nel dettaglio, approfittando per aprirre uno a uno i bottoni del vestito di mussola.
Riassumendo, diciamo pure che Colomba nel giro di poco si trovò priva dei suoi veli mentre il sole accarezzava le terse colline del suo corpo voluttuoso. Si portava alla bocca i marron glacé sciroppati senza preoccuparsi del filo di succo che le correva dal mento ai seni, traccia che il professore seguiva ansimando con gli occhi fuori dalle orbite, fino a che non riuscì più a resistere e si gettò su quella montagns di carne luminosa e palpitante, disposto a leccare il dolce e qualsiasi altra cosa fosse alla sua portata, strappandosi letteralmente di doddo gli abiti, come un indemoniato, ritrovandosi nudo.
Colomba era piegata in due per il solletico, morta dal ridere – non aveva mai visto un omino così magro e peloso con un cetriolo tanto gagliardo -, ma non apriva le gambe, anzi, si ritraeva con dinieghi deliziosi nelle intenzioni, che però, considerata la sua stazza, sembravano piuttosto delle vere e proprie respinte elefantine. Alla fine riuscì a liberarsi dal goffo abbraccio del professore di Storia dell’arte e si mise a correre, provocandolo e ridendo, come quelle mitologiche creature dei boschi che appaiono sempre accompagnate da fauni. E sembrava proprio un fauno, il professore che cercava di raggiungerla…
Nel frattempo la mucca, che non era una mucca ma un toro, decise che ne aveva abbastanza di quella baldoria sul suo pascolo e si lanciò all’inseguimento degli amanti i quali, sentendosi il possente animale alle costole, si misero a correre come due dannati per cercare rifugio in un bosco vicino.
Dovettero passare diverse ore prima che il toro decidesse di allontanarsi quanto bastava per permettere agli sfortunati escursionisti, nudi e tremanti, di tornare indietro.
L’effetto della marijuana, del vino, del soletico e del cibo era ormai sfumato da tempo, Colomba, isterica, profferiva insulti e minacce mentre il terrorizzato professore, che si copriva l’avvizzito cetriolo con le mani, cercava inutilmente di tranquillizzarla con versi di Rubé Darìo. Una volta raggiunto il luogo del picnic, scoprirono che tutti i vestiti e la macchina erano stati rubati. Vicino al salice piangente su cui gorgheggiavano gli uccelli rimaneva soltanto il cappello di paglia italiana…

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