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17 aprile 2018

da “I racconti” – Italo Svevo

Antonio Ligabue - Lotta tra galli
da “I racconti” – Italo Svevo
La madre

In una valle chiusa da colline boschive, sorridente nei colori della primavera, s’ergevano una accanto all’altra due grandi case disadorne, pietra e calce. Parevano fatte dalla stessa mano, e anche i giardini chiusi da siepi posti dinanzi a ciascuna di esse, erano della stessa dimensione e forma. Chi vi abitava non aveva però lo stesso destino.
In uno dei giardini, mentre il cane dormiva alla catena e il contadino si dava da fare intorno al frutteto, in un cantuccio, appartati, alcuni pulcini parlavano di loro grandi esperienze. Ce n’erano altri di più anziani nel giardino, ma i piccini il cui corpo conservava tuttavia la forma dell’uovo da cui erano usciti, amavano di esaminare fra di loro la vita in cui erano piombati, perché non vi erano ancora tanto abituati da non vederla. Avevano già sofferto e goduto perché la vita di pochi giorni è più lunga di quanto possa sembrare a chi la subì per anni, e sapevano molto, visto che una parte della grande esperienza l’avevano portata con sé dall’uovo. Infatti appena arrivati alla luce, avevano saputo che le cose bisognava esaminarle bene prima con un occhio eppoi con l’altro per vedere se si dovevano mangiare o guardarsene.
E parlarono del mondo e della sua vastità, con quegli alberi e quelle siepi che lo chiudevano, e quella casa tanto vasta ed alta. Tutte cose che si vedevano già, ma si vedevano meglio parlandone.
Però uno di loro, dalla lanuggine gialla, satollo – perciò disoccupato – non s’accontentò di parlare delle cose che si vedevano, ma trasse dal tepore del sole un ricordo che subito disse: “certamente noi stiamo bene perché c’è il sole, ma ho saputo che a questo mondo si può stare anche meglio, ciò che molto mi dispiace, e ve ne le dico perché dispiaccia anche a voi”. La figliuola del contadino disse che noi siamo tapini perché ci manca la madre. Lo disse con un accento di sì forte compassione ch’io dovetti piangere.
Un altro più bianco e di qualche ora più giovine del primo, per cui ricordava ancora con gratitudine l’atmosfera dolce da cui era nato, protestò: “noi una madre l’abbiamo avuta. E quell’armadietto sempre caldo, anche quando fa il freddo più intenso, da cui escono i pulcini belli e fatti”.
Il giallo che da tempo portava incise nell’animo le parole della contadina, e aveva perciò avuto il tempo di gonfiarle sognando di quella madre fino a figurarsela grande come tutto il giardino e buona come il becchime, esclamò, con un disprezzo destinato tanto al suo interlocutore quanto alla madre di cui costui parlava: “se si trattasse di una madre morta, tutti l’avrebbero. Ma la madre è viva e corre molto più veloce di noi. Forse ha le ruote come il carro del contadino. Perciò ti può venire appresso senza che tu abbia il bisogno di chiamarla, per scaldarti quando sei in procinto di essere abbattuto dal freddo di questo mondo. Come dev’essere bello di avere accanto, di notte, una madre simile”. Interloquì un terzo pulcino, fratello degli altri perché uscito dalla stessa macchina che però l’aveva foggiato un po’ altrimenti, il becco più largo e le gambucce più brevi. Lo dicevano il pulcino maleducato perché quando mangiava si sentiva battere il suo beccuccio, mentre in realtà era un anitroccolo che al suo paese sarebbe passato per compitissimo. Anche in sua presenza la contadina aveva parlato della madre. Ciò era avvenuto quella volta ch’era morto un pulcino crollato esausto dal freddo nell’erba, circondato dagli altri pulcini che non l’avevano soccorso perché essi non sentono il freddo che tocca agli altri. E l’anitroccolo con l’aria ingenua che aveva la sua faccina invasa dalla base larga del beccuccio, asserì addirittura che quando c’era la madre i pulcini non potevano morire.
Il desiderio della madre presto infettò tutto il pollaio e si fece più vivo, più inquietante nella mente dei pulcini più anziani. Tante volte le malattie infantili attaccano gli adulti e si fanno per loro più pericolose, e le idee anche, talvolta. L’immagine della madre quale s’era formata in quelle testine scaldate dalla primavera, si sviluppò smisuratamente, e tutto il bene si chiamò madre, il bel tempo e l’abbondanza, e quando soffrivano pulcini, anitroccoli e tacchinucci divenivano veri fratelli perché sospiravano la stessa madre.
Uno dei più anziani un giorno giurò ch’egli la madre l’avrebbe trovata non volendo più restarne privo. Era il solo che nel pollaio fosse battezzato e si chiamava Curra, perché quando la contadina col becchime nel grembiale chiamava curra, curra , egli era il primo ad accorrere. Era già vigoroso, un galletto nel cui animo generoso albeggiava la combattività. Sottile e lungo come una lama, esigeva la madre prima di tutto perché lo ammirasse: la madre di cui si diceva che sapesse procurare ogni dolcezza e perciò anche la soddisfazione dell’ambizione e della vanità.
Un giorno, risoluto, Curra con un balzo sgusciò fuori dalla siepe che, fitta, contornava il giardino natìo. All’aperto subito sostò intontito. Dove trovare la madre nell’immensità di quella valle su cui un cielo azzurro sovrastava ancora più esteso? A lui, tanto piccolo, non era possibile di frugare in quell’immensità. Perciò non s’allontanò di troppo dal giardino natìo, il mondo che conosceva e, pensieroso, ne fece il giro. Così capitò dinanzi alla siepe dell’altro giardino.
“Se la madre fosse qui dentro – pensa – la troverei subito”. Sottrattosi all’imbarazzo dell’infinito spazio, non ebbe altre esitazioni. Con un balzo attraversò anche quella siepe, e si trovò in un giardino molto simile a quello donde veniva.
Anche qui v’era uno sciame di pulcini giovanissimi che si dibattevano nell’erba folta. Ma qui v’era anche un animale che nell’altro giardino mancava. Un pulcino enorme, forse dieci volte più grosso di Curra, troneggiava in mezzo agli animalucci coperti di sola peluria, i quali – lo si vedeva subito – consideravano il grosso, poderoso animale quale loro capo e protettore. Ed esso badava a tutti. Mandava un ammonimento a chi di troppo s’allontanava, con dei suoni molto simili a quelli che la contadina nell’altro giardino usava coi propri pulcini. Però faceva anche dell’altro. Ad ogni tratto si piegava sui più deboli coprendoli con tutto il suo corpo, certo per comunicar loro il proprio calore.
“Questa è la madre – pensò Curra con gioia. – L’ho trovata ed ora non la lascio più. Come m’amerà! Io sono più forte e più bello di tutti costoro. E poi mi sarà facile di essere obbediente perché già l’amo. Come è ella e maestosa. Io già l’amo e a lei voglio sottomettermi. L’aiuterò anche a proteggere tutti cotesti insensati”.
Senza guardarlo la madre chiamò. Curra s’avvicinò credendo di essere chiamato proprio lui. La vide occupata a smovere la terra con dei colpi rapidi degli artigli poderosi, e sostò curioso di quell’opera cui egli assisteva per la prima volta. Quand’essa si fermò, un piccolo vermicello si torceva dinanzi a lei sul terreno denudato dall’erba. Ora essa chiocciava mentre i piccini a lei d’intorno non comprendevano e la guardavano estatici.
“Sciocchi! – pensò Curra. – Non intendono neppure che essa vuole che mangino quel vermicello.” E, sempre spinto dal suo entusiasmo d’obbedienza, rapido si precipitò sulla preda e l’ingoiò. E allora – povero Curra – la madre si lanciò su lui furibonda. Non subito egli comprese, perché ebbe anche il dubbio ch’essa, che l’aveva appena trovato, volesse accarezzarlo con grande furia. Egli avrebbe accettato riconoscente tutte le carezze di cui egli non sapeva nulla, e che perciò ammetteva potessero far male. Ma i colpi del duro becco, che piovvero su lui, certo non erano baci e gli tolsero ogni dubbio. Volle fuggire, ma il grosso uccello lo urtò e, ribaltatolo, gli saltò addosso immergendogli gli artigli nel ventre. Con uno sforzo immane, Curra si rizzò e corse alla siepe. Nella sua pazza corsa ribaltò dei pulcini che stettero lì con le gambucce all’aria pigolando disperatamente. Perciò egli poté salvarsi perché la sua nemica sostò per un istante presso i caduti. Arrivato alla siepe, Curra, con un balzo, ad onta di tanti rami e sterpi, portò il suo piccolo ed agile corpo all’aperto. La madre, invece, fu arrestata da un intreccio fitto di fronde. E là rimase maestosa guardando come da una finestra l’intruso che, esausto, s’era fermato anche lui. Lo guardava coi terribili occhi rotondi, rossi all’ira. “Chi sei tu che t’appropiasti il cibo ch’io con tanta fatica avevo scavato dal suolo?”. “Io sono Curra – disse umilmente il pulcino – ma tu chi sei e perché mi facesti tanto male?” Alle due domande essa non diede che una sola risposta. “Io sono la madre”, e sdegnosamente gli volse il dorso.
Qualche tempo appresso, Curra, oramai un magnifico gallo di razza, si trovava in tutt’altro pollaio. E un giorno sentì parlare da tutti i suoi nuovi compagni con affetto e rimpianto della madre loro. Ammirando il proprio, atroce destino, egli disse con tristezza: “la madre mia, invece, fu una bestiaccia orrenda, e sarebbe stato meglio per me ch’io non l’avessi mai conosciuta.”

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