(…)
In quel pomeriggio
d'inverno, nella piccola via annottava prima delle cinque. E Domenico Maresca,
a cui premeva assai di lavorare intorno al suo san Michele, domandato con
grandi insistenze dal parroco di Atripalda, dalla commissione, dal sindaco, da
quanti avevan messo insieme il denaro, per avere un san Michele nuovo, loro
protettore, aveva fatto accendere da Nicolino, il ragazzo, due grandi lumi a
petrolio che avevano, dietro, un riflettore di latta, per raddoppiare la loro
luce: e lui e il doratore di Venosa, lavoravano, uno davanti al santo, uno
dietro, in silenzio, un po' curvi sotto i berretti bianchi di carta, con le
larghe bluse azzurre tutte macchiate di bianco, di giallo, di rosso, di oro, di
argento. Faceva molto freddo, fuori: non lì dentro, ove essi stavano dalla
mattina: piuttosto, lì dentro, i cattivi odori delle tinte si eran fatti più
forti, più densi, poiché non si mutava l'aria. In quella grossa giornata di
fatica, malgrado l'abitudine, quelle puzze finivano per stordirli, con la testa
pesante e vuota. Domenico Maresca, più pallido del consueto, e il venosino
quasi verdastro nel suo bruno colore di contadino, strappato alle aride terre
di Basilicata.
Qualcuno fece stridere
la maniglia per entrare.
- Buona notte, a
Vossignoria - disse una voce di donna.
- Buona notte, donna
Clementina - rispose Domenico, senza distrarsi dal suo lavoro.
Colei che era
entrata, era una donna sulla quarantina, ma che sembrava molto più vecchia, coi
suoi capelli grigiastri mal pettinati, con la sua faccia oscura piena di rughe
e le labbra di un viola pallido. Era vestita poveramente, con uno scialle nero
stretto sul collo e sul petto, che mal la doveva difendere contro il freddo: si
trascinava stancamente, e cercò, subito, una delle due o tre sedie: vi si gettò
sopra, con un sospiro dolente.
- Che ci dite di
bello, donna Clementina?- chiese il pittore, senza levare la testa dal lavoro, adoperando
la frase curiosa e convenzionale del popolo.
- Niente di bello,
don Domenico mio, proprio niente. Tutte cose brutte. Miseria, malattie e disperazione.
Non ne posso più.
E la voce triste e
roca le si soffocò nella gola. Gittata su quella sedia, la donna così mal vestita
e sudicia, così pallida e sfinita nell'aspetto, pareva uno straccio umano.
- Non vi scoraggiate,
donna Clementina - mormorò vagamente Domenico, a cui quei lagni non eran nuovi,
ma che lo commovevano sempre.
- Dite bene, voi!
Avete un'arte nelle mani, che Dio ve la benedica, la fatica non vi manca, qualche
soldo da parte lo avete, siete solo: dite bene! Sapete quanti figli ho, io?
Sei! E fra tre mesi sono sette. Sapete il più grande, quanti anni ha? Dodici! E
il più piccolo, un anno. Ogni mattina e ogni sera queste sei bocche si aprono
per mangiare, don Domenico mio, e hanno una fame, una fame!
- E vostro marito che
fa?
- Che ha da fare,
poveretto! Sta col sediario della chiesa della Pietrasanta, che lo tiene con sé,
proprio per carità, dice lui, e intanto il sediario guadagna cinque o sei lire
al giorno, quando non è vesta, e una ventina di lire, la domenica, per l'affitto
delle sedie. Pasquale mio piglia quindici soldi, i giorni di lavoro,
venticinque la domenica. E fatica! fatica! Il sediario dovrebbe spazzare la chiesa,
lavare i vetri, spolverare tutto, e si scarica su Pasquale mio, mentre egli fa
il signore, il sediario e le sue figliuole portano il cappello!
- E voi, donna
Clementina?
- Io? Voi lo sapete
che guadagno, io! Il lavoro non mi manca, perché, non faccio per vantarmi,
poche sarte di santi sanno tener l'ago in mano, come Clementina Ascione; e se si
vuol vestir bene una santa Genoveffa, un san Ciro, si deve venire da me. Don
Mimì, l'anno scorso una veste per un'Assunta, che doveva andare a santa Maria
di Capua, la veste e il manto, don Mimì, una bellezza! Ebbene, che ne ricavo?
Quando ho messo insieme venticinque, trenta soldi al giorno, è una meraviglia.
Si paga poco. Il lavoro non si capisce. Ognuno vuole spendere pochissimi soldi.
Voi me lo insegnate. Non vi è più religione: non vi sono più denari. E tutti
questi figli, Domenico mio! Ogni quindici mesi, uno: come se vi mancasse la
razza della pezzenteria, in questo mondo: come se vi mancasse gente, per
perpetuare la miseria.
- E che ne fate, di
tutti questi figli?
- Eh, i più grandi
badano ai più piccoli. Qualcuno va alla scuola pubblica; dicono che non si paga,
eppure qualche soldo ve lo tirano sempre. Il primo sta col sacrestano della
Rotonda, che gli dà da mangiare, un piatto caldo, ma neppure un centesimo. Don
Domenico mio, voi siete un signore, ma ascoltatemi bene, non vi maritate mai!
- E voi, perché vi
siete maritata? - disse, con un fiacco sorriso, il pittore dei santi.
- Che volete, fu una
stupidaggine! Io ero stata sempre ragazza di chiesa, mi chiamavano la bizzochella,
mi volevo fare conversa a Regina Coeli e poi monaca, se ne ero degna: il Padre
Eterno non mi ha voluta. Io vidi Pasquale, Pasquale vide me, non avevamo un
soldo, né io, né lui, salvo la gioventù, la voglia di lavorare e la religione.
Ah che sbaglio, che sbaglio! Non vi ammogliate, don Domenico, vi parlo come una
madre.
Egli tacque, pensoso.
Da qualche momento non lavorava più, vinto, forse dalla stanchezza, da quel
peso sulla testa che faceva vacillare, talvolta, il suo cranio troppo grosso.
Si appressò alla sarta dei santi, così querula nella sua onesta e laboriosa
miseria, così disfatta dalla sua esistenza, e le chiese:
- Mi avete, poi,
portata la veste di santa Rosalia, col manto? Io ho da mandarla a Palermo, santa Rosalia, a un
monsignore.
- Non l'ho potuta
finire, don Domenico mio - mormorò ella, a voce bassa. - Questa giornata ho avuto tali e tanti
malanni addosso, con questa gravidanza, col mio Gaetanuccio che ha la tosse convulsiva
e, certo, la darà agli altri. Domani sera ve la porto, don Domenico.
Solamente... questa sera... voi mi dovete aiutare... - E abbassò ancora la
voce, vergognandosi di quella faccia verde e chiusa del basilisco Gaetano Ursomando,
che seguitava a tirar fuori l'argento sulla corazza di san Michele.
- ... anticiparmi
cinque lire.
- Io vi ho abbastanza
anticipato, donna Clementina - le rispose, anche a voce bassa, freddamente, ma
senza durezza, il pittore dei santi.
- È vero, è vero,
avete ragione, chi può negarvelo? Ma io sconterò tutto, ve lo giuro! Ne dovete
fare Madonne, voi, don Domenico, e io vestirle, e, tutte belle, da far restare
meravigliati tutti i divoti! Io sconterò tutto; ma, stasera, non mi
abbandonate, datemi quest'altro anticipo, e poi faremo i conti. Ho da far la
cena a sei figli e comprare la medicina per Gaetanuccio. Se mi fate questo
favore, io vado da don Carluccio, qua, in piazza, e il pover'uomo, malgrado i
suoi guai, mi fa risparmiare...
- Voi andate da don
Carluccio, il farmacista? - chiese, dopo una esitazione, Domenico Maresca.
- Già. È pieno di
tristezza, anche lui, perché nessuno ne manca. Ma quando mi vede, siccome mi
conosce, da tanti anni, ed io conosco lui, che era giovane e ricco, oh tanto
ricco, così mi fa risparmiare qualche soldo!
- Ha tanta tristezza?
Era molto ricco?
- Avevano carrozza e
cavalli, i Dentale! Tenevano una grande fabbrica di medicine, fuori Napoli,
verso san Giovanni a Teduccio: e don Carluccio sposò un'altra Dentale, sua
cugina, per non fare uscire le ricchezze dalla famiglia. Che sfarzo, quel
matrimonio! Io era ragazza, allora, e abitavo dirimpetto al loro palazzo e mi
chiamarono su, in cucina, ed ebbi pranzo, e due gelati, e confetti! E quando
nacque Anna! Che battesimo, don Domè! Solo il vestito di ricamo della bambina,
valeva trecento lire. Chi glielo avesse detto, a donna Nannina, quel che le
doveva succedere!
- Voi la vedete,
qualche volta, la signorina Anna? - soggiunse, con voce velata, Domenico.
- Raramente. Che
volete, era ricca, è diventata quasi povera, e non se ne può capacitare. Non
parla, non si lagna, non versa una lagrima, ma io so che ne patisce moltissimo.
Aveva già dieci anni, quando cominciarono i cattivi affari. Essa capiva tutto.
Fu un seguito di disgrazie; a quindici o sedici anni, vi fu il fallimento, e
Anna vedette morire sua madre di un tifo, una malattia nella testa, venutale
pel dispiacere. Così, a poco a poco, venduto tutto, padre e figlia si sono
ridotti, anni fa, con qualche migliaio di lire, in questa farmacia, e ora sono
pieni di debiti, sempre, e non possono andare avanti, perché non hanno
capitali, e la farmacia è quasi vuota di medicine...
- Poveretta...
poveretta! - disse Domenico a occhi bassi.
- Sì, poveretta,
proprio lei, perché fino adesso, almeno, ella stava sola sola, al terzo piano, in
un quartino del palazzo Angiulli, e lì lavorava, in segreto, non uscendo quasi
mai, vergognandosi di uscire, non avendo vestiti nuovi, perché donna Nannina è
molto superba. Adesso, nientemeno, il padre la vuole far scendere in farmacia,
a vendere, e lei non vuole, non vuole...
- Ha ragione!
Ragione, don Domè?
Quando vi sono guai, bisogna fare tutto. Don Carluccio non può più pagare né il
commesso, né il contabile: d'altronde, donna Nannina è una bella giovane...
- Voi che cosa dite,
donna Clementina?
- Eh già, dico
questo, che, senza peccato, una bella giovane può stare al pubblico, anzi tira gente
e può trovare anche un buon partito...
- Queste sono le cinque
lire - replicò don Domenico, asciuttamente, troncando il discorso.
La verbosa sarta dei
santi lo guardò, un po' stupita, prendendo il danaro. Sentiva di aver detto
qualche cosa di spiacevole, ma non comprendeva che cosa. Si levò. con uno
sforzo. Don Domenico era tornato presso la statua di san Michele, ma non aveva
ripresa la stecca.
- Tante grazie, don
Domenico: Dio vi deve benedire, in ogni cosa che desiderate. Domani sera, vi
porto la veste di santa Rosalia...
- Va bene, buona sera.
- Buona sera, buona
sera.
Uscita donna
Clementina, il pittore dei santi girò due o tre volte per la bottega, così,
come se cercasse qualche cosa che non trovava. Il mal odore della creta, delle
biacche, dei colori, si era fatto anche più opprimente.
- Io apro un poco:
non importa che fa freddo - disse, come fra sé.
E schiuse la porta;
la lasciò spalancata; uscì sulla via. Involontariamente, mentre faceva due o
tre passi, avanti e indietro, quasi non sentendo il freddo acuto di tramontana
che aveva persino disseccato l'umido della piccola strada, i suoi occhi si
levarono, in alto, verso la gran muraglia del palazzo Angiulli, laterale alla
chiesa della Madonna dell'Aiuto. Ivi, quattro linee di finestre e di balconi si
sovrapponevano; alcuni illuminati, altri no, il secondo piano tutto chiuso e
sbarrato, poiché la vecchia principessa di Santa Marta, quell'anno, non era
tornata da Turi, in provincia di Bari, dove i suoi coloni si negavano di pagare
i fitti, ed ella era restata in provincia per vessarli, per perseguitarli. In
verità, gli occhi di Domenico erano fermi a un balconcino del terzo piano, balconcino
illuminato fiocamente, come da una lampada velata. Ma niuno appariva dietro i
cristalli, in quella gelida sera d'inverno. Un'ombra oscura di donna, venendo
dai Banchi Nuovi, con passo leggiero, ma un po' lento, sfiorò il pittore dei
santi: la persona si fermò.
- Buona sera, Mimì.
Era una voce assai
tenue, ma musicale, quasi cristallina, nella sua tenuità. Un viso bianco, appena,
si distingueva, nella cornice di uno scialle, di un cappuccio bruno.
- Buona sera,
Gelsomina.
- Che fai, qui, a
quest'ora, Mimì?- chiese la piccola voce, un po' cantante e così limpida.
- Prendo l'aria.
- Con questo freddo?
- Dentro, vi è
cattivo odore, ho lavorato troppo, oggi. E tu, dove vai?
- Vado alla
Congregazione di Spirito. Vi è la novena della Immacolata.
- Ti vuoi fare
santarella, Gelsomina?
- Oh no! - disse la
soave voce, con un profondo sospiro, pieno di rimpianto, pieno di rammarico.
- E perchè no?
- Perchè ... perchè
... perchè! - soggiunse la donna, la giovine, con un accento enigmatico, pieno
di malinconia.
- Di' una preghiera,
per me, Gelsomina - replicò Domenico, facendo per rientrare nella bottega.
-
La dico, la dico. Buona sera; dopo la Congregazione, Mimì, vengo a darti la
buonanotte.
(…)
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