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15 aprile 2018

Da Storia di due anime – Matilde Serao

opera di Carl Vilhelm Holsoe 
Da Storia di due anime – Matilde Serao

(…)
Pure, vi era tanta espressione di rammarico inconsolabile, di un lungo rimpianto antico, senza conforto, tanta evocazione di un passato che era stato dolce e che avrebbe potuto essere felice, che egli, ottuso, sordo e cieco, intese il rimprovero, ma senza approfondirne la essenza disperata. Girò lo sguardo intorno, vagamente, come a raccogliere le sue idee, i suoi sentimenti, i suoi ricordi: ma preso dal suo dolore personale, ancora più veemente, perché non espresso, non trovò nulla da soggiungere. Ella fece un atto lieve, di disdegno pietoso, con le labbra, innanzi a quella sordità, a quella cecità e riprese, lentamente, parlando in sogno come un tempo:
- Solo Dio.. solo la Madonna.. possono fare qualche cosa, per me…
- Ma tu li preghi? - Tu preghi, ancora? - chiese lui, con ansia ingenua.
- Ancora: indegnamente. Ho portato dei ceri all'Addolorata di Santa Brigida.. ho fatto tanti voti... voglio andare scalza, da Napoli a Valle di Pompei...
- Ebbene?
- Niente - disse lei, con voce desolata,
- Bisogna pregare, sempre: sperare sempre…
- Tante altre, come me, tante altre poverette, hanno pregato, hanno fatto voti… e nulla hanno ottenuto... Certe non pregano più... forse così vuole, Dio, per farci fare il Purgatorio in terra - ella disse, con quello accento di sogno, di lungo sogno interiore e triste.
- Così vuol Dio, forse!
- Amen - disse lei, aprendo le braccia e abbassando la testa.
Poi, come avendo accettato questa croce, questa pietra che le ricadeva sul petto, ella mutò discorso:
- E tu, Mimì, tu? Che fai? Hai già un figlio?
- No - egli disse, trasalendo.
- Come? Non hai un figlio? Me lo avevano detto... che avevi avuto un maschio... un bel maschio... che bugiardi! E ti dispiace, di non averne?
- Mi dispiace - rispose lui, sempre a occhi bassi.
- E ad Anna, dispiace?
- No. Le fa piacere, non aver figli.
- Piacere? Piacere? - gridò lei, stupita. - Le può far piacere, questo ?
- Già.
- Non ha cuore, dunque?
Domenico Maresca non rispose. E, sul volto, gli si vedeva la tortura che subiva per quell'interrogatorio; ma, strano a dirsi, anche il desiderio morboso di non troncarlo.
- Ma ti vuol bene, Anna? Ti vuol bene?
Alla domanda incalzante, egli seguitava a non rispondere. Un'altra ambascia lo soffocava:
ma in quell'ambascia, almeno, egli poteva concentrare tutto quanto aveva sofferto in quel giorno, tutto quanto aveva sofferto in un anno e mezzo. A quella povera ragazza, diventata una creatura perduta, a quel povero essere dalle guance brucianti di rossetto, dall'acconciatura equivoca, che ronzava, sola, in quell'ora tarda, in quel quartiere di piacere, egli sentiva di poter denudare il suo cuore, senza tema di esser deriso, senza tema di esser beffato.
- Anna non ti vuol bene? - chiese ancora, lei, con la insistenza della pietà, della tenerezza. E, infine, come non lo aveva mai detto a nessuno, come non lo aveva confessato mai apertamente, neppure a sé stesso, come lo aveva detto solo al Signore, nelle sue orazioni, Domenico Maresca, a Gelsomina, che non si chiamava neppure più così, portando, oramai, solo il nome di Fraolella, portando solo il soprannome di una di queste disgraziate donne, a Fraolella, rispose questo:
- No, Anna non mi vuol bene.
Un silenzio tragico regnò fra loro.
- E allora, allora - lo interruppe lei, alzando la voce, come per protestare contro il Destino - allora, è stato inutile che tu la sposassi?
- È stato inutile.
- Sei certo, che non ti vuol bene?
- Come della morte, ne sono certo.
- Oh Dio! - disse lei, celandosi il viso tra le mani.
- Essa mi ha sposato per il danaro - continuò lui che, oramai, era preso dal delirio della confidenza. - Non per altro: per danaro. Ne ho speso tanto, Gelsomina: e non è bastato: e non basta: ce ne vuole sempre: se no, Anna mi disprezza e mi disprezzerà più che mai...
- Gesù, Gesù... - ripeteva lei, sommessamente.
- Non solo non mi ama, ma le sono odioso: lo mostra, lo dice, in ogni atto, in ogni parola.
Non posso più accostarmi a lei, senza che mi respinga: non posso volerle dare un bacio, senza che mi faccia uno sgarbo...
- Che ingrata... che ingrata...
- La mia famiglia, i miei parenti, i miei amici, tutti, tutti li disprezza, sputerebbe loro in faccia, se potesse ... e, invece, sta sempre con i suoi... non so dove... non so con chi ...
- Che dici? Non sai, dove? Non sai, con chi?
- Gelsomina, Gelsomina, - gridò lui, giunto al colmo del parossismo - da oggi, alle quattro, è andata via, e mi ha scritto che sarebbe rientrata tardi, mi ha lasciato solo... disperato...
- Non sai dove è?
- Qui, qua vicino, qua attorno, deve essere in una di queste case della Torretta, da una sua parente, e non so il numero di casa, non so nulla, e sono in giro da due ore, Gelsomina, per trovarla e cammino, cammino come un pazzo, per incontrarla, così, mia moglie, Anna, capisci!
Vedendolo così esaltato, come mai lo aveva visto, Gelsomina lo aveva attirato verso il Viale Elena, ove era meno gente che osservasse, che udisse, lo aveva attirato sotto le acacie in fiore. E, lentamente, gli prese le mani, gli disse con dolcezza:
- Oh povero Mimì, povero Mimì, che hai fatto, che hai fatto!
- Mai, lo avessi fatto, mai! - gridò lui, disperato. – Era meglio morire che far questo!
E i due sventurati, ambedue precipitati in fondo a un abisso, ambedue incapaci di altro che di esalare il proprio dolore in vane parole, si teneano per le mani, come due morenti.
- Almeno... - mormorò lei, lentamente - almeno... ti è fedele?
- Sì - disse lui, sordamente. - Mi è fedele.
- Ne sei sicuro?
- Ne sono sicuro. È così cattiva, così fredda che non ha voluto bene e non vorrà bene, mai, a nessuno. Ah io dovevo morire e non sposarla mai! Dovevo vivere senza amore, io! Non ero destinato all'amore, io! Come mio padre, come il mio povero padre, non era mio destino, voler bene a una donna ed esserne corrisposto...
- Tuo padre, Mimì? Tuo padre?
- Nulla - disse lui, troncando subito tale divagazione, mordendosi le labbra. - Vedi bene, Gelsomina, che non sei la sola, a fare una vita disperata. Io sono solo, come un cane: come un cane che abbia un padrone tiranno, perverso, malvagio, che lo colmi di frustate, a ogni buona azione che fa. Non sei sola, a fare una vita disperata. Almeno, l'hai un innamorato...
- Già! - disse lei, con un riso cinico.
- L'hai detto tu!
- L'ho detto. È la verità. Sai chi è, il mio innamorato? Non lo sai? È Gaetanino Calabritto, il figlio del sellaio in via Cavallerizza: un bel giovanotto, non lo hai mai visto, ma, se aspetti un poco, lo vedrai! Un bel giovanotto - continuò lei, ansimando, con gli occhi pieni di lacrime - che non ha né arte né parte, che prende o ruba danaro, a sua madre, che prende o ruba danaro, a suo padre, che è affiliato alla mala vita, che è stato già in carcere, tre volte, che vi tornerà... e che è il mio innamorato!
- Che orrore! - esclamò lui.
- Ti fa orrore? Pure a me. Ogni giorno, ogni sera, egli viene da me... e io debbo dargli quel che vuole, quello che ho, dieci lire... cinque lire... due lire... quello che ho... capisci!...
- Capisco! Che orrore!
- Anche a me, anche a me fa orrore! Io non ho un soldo, questi abiti che ho addosso, me li
ha venduti la mia padrona di casa, e non glieli ho pagati... e non so come fare certi giorni, per mangiare... ed egli vuol sempre quattrini... capisci, capisci?.
- Capisco! È orribile! Ma come sei capitata con lui?
- Così! Per non esser sola, come una povera bestia abbandonata, nella sua cuccia, per non esser sola, comprendi, per avere una finzione di amore, una finzione di protezione, una finzione di compagnia... ho messo la mia esistenza in mano di costui... che mi fa ribrezzo. Domenico, te lo giuro, per quella Vergine che non dovrei nominare, tanto le mie labbra sono piene di peccato, Domenico, egli mi fa schifo, e intanto, egli viene, e io gli do quello che ho, così, per debolezza, per viltà... per non esser battuta, la sera e la mattina...
- E non puoi lasciarlo?
- Egli mi ucciderebbe - disse lei, tetramente.
(…)

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