opera di Mary Sauer
Da “Uomini nudi” – Alicia Giménez-Bartlett(…)
“Guarda, Ivàn, non voglio che tu te la prenda con me, ma credo che a questo secondo appuntamento preferirei non venire”.
“Sentimi bene, Javier, fino adesso abbiamo auto fortuna e hai potuto scegliere. Una festa privata qui, un paio di turiste là. Ma adesso viene un periodo di morta per il turismo, e anche per le feste, è chiaro? Se ti metti a dire no a tutto come un coglione finisce che non ti entrano i soldi e l’affitto per la tua bella casetta non lo puoi più pagare. E allora cosa fai, torni indietro? È questo che vuoi?”.
“No, certo che no”.
“E allora, professore, sii responsabile e vieni”.
Mi sono messo a ridere. Quel richiamo solenne alla responsabilità era il colmo, venendo da lui, e considerato l’oggetto cui si applicava. Mi è basata una risata per capire cha stavo facendo un problema enorme di una sciocchezza. Ivàn aveva ragione. Non si trattava della mia dignità, a darmi fastidio era proprio quella donna, così fredda, così sdegnosa. Avevo reagito da tipico maschio spagnolo. Certo che Ivàn aveva ragione: c’era l’affitto da pagare, e non solo. Dovevo mangiare, vestirmi, comprarmi qualche libro, finanziarmi quelle piccole quantità di cocaina che mi davano la forza per continuare.
“Facciamo un patto. I vengo all’appuntamento e tu mi prometti che finisci Delitto e castigo”.
“Cazzo, professore, sei proprio un fissato! E va bene, d’accordo. Finisco quel mattone del castigo, anche se come castigo mi basti già tu, non ho bisogno del Raskol’nikov delle palle”.
Chi capisce che cosa succede in quella testa è bravo. Ha già cambiato idea. Magari ha fatto tutta la sceneggiata di proposito, per far venir voglia alla tipa, per farla dare di matto. Si sa che le femmine sono bastian contrario, e più le tratti male più tornano con la coda tra le gambe a chiederne di più. Sarà così astuto il professore? Capace che lo è.
Entriamo in camera. Non è la stessa dell’altra sera, non siamo nello stesso albergo. A cena ho bevuto parecchio. Ogni tanto la guardavo, ma come di sfuggita, a tradimento. Lei era sempre uguale. Serena, tranquilla, sulle sue. Ha parlato il meno possibile, non ha sorriso quasi mai. Ivàn e l’amica facevano tutto da soli: le chiacchiere, le risate, i brindisi… Io badavo a non far capire che ero curioso.
Sono davanti a lei, disinibito dal vino e dalla coca, fermamente deciso a fare quello che devo e fregarmene di tutto. Lei porta un tailleur nero, un foulard al collo. È elegante, di un’eleganza borghese, sobria, senza concessioni alla fantasia. Che cosa l’ha portata fin qui? Perché lo fa? Mi tolgo i pantaloni. Mi sfilo il maglione. Rimango immobile. La guardo.
“Il solito, signora?”.
“Si” risponde asciutta.
O la battuta le è parsa offensiva o non ha il senso dell’umorismo.
Finisco di spogliarmi con indifferenza, senza sforzarmi di essere sexy. Lei mi guarda con espressione neutra. Sarebbe un’ottima giocatrice di poker. Le chiedo:
“Mi siedo o rimango in piedi?”.
“Prendi quella sedia. Mettila lì davanti. No, non qui, più lontano”.
“Benissimo, perché sono un po’ stanco”.
“A gambe aperte, per favore”.
(…)
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