Fernando Botero - La cornada
La capitale del mondo
- Ernest Hemingway
Da I quarantanove
racconti, 1938
Madrid è piena di
ragazzi di nome Paco, che è un diminutivo di Francisco, ed a Madrid si racconta
la barzelletta di quel padre che giunto a Madrid inserì su “El Liberal” un annuncio
economico: “Paco attendoti hotel Montana martedì mezzogiorno tutto
perdonato. Papà”; e per disperdere gli ottocento
giovanotti che
risposero all’annuncio si dovette chiamare uno squadrone della Guardia Civica.
Ma questo Paco, che serviva a tavola alla Pension Luarca, non aveva né un padre
che gli perdonasse né cose di cui dovesse chiedere perdono al padre. Aveva due
sorelle maggiori, cameriere al Luarca, le quali avevano avuto quel posto perché
erano dello stesso paesetto di un’ex cameriera del Luarca che si era dimostrata
onesta e lavoratrice, così procurando buona fama al proprio paese ed ai suoi
prodotti. Queste
sorelle avevano
pagato a Paco il viaggio in autobus fino a Madrid e gli avevano fatto avere
quel posto di apprendista cameriere. Il ragazzo veniva da un paesetto sperduto
dell’Estremadura, dove le condizioni di vita erano incredibilmente primitive,
il cibo scarso ed ogni comfort sconosciuto; ed aveva sempre lavorato
duramente da quando ricordava.
Era un ragazzo ben
messo, con capelli molto neri e un po’ ricci, bei denti, una pelle che le sue
sorelle gli invidiavano ed un sorriso pronto e disinvolto. Sapeva muoversi con
sveltezza e faceva bene il suo lavoro, amava le sorelle che gli apparivano
bellissime e raffinate; amava Madrid, luogo per lui ancora
incredibile, e amava
il suo lavoro che si svolgeva tra luci splendenti, tovaglie candide, gente in
abito da sera e tante cose da mangiare in cucina: tutto ciò gli appariva
bellissimo in un modo romantico.
C’era al Luarca
un’altra decina di persone che mangiavano in sala da pranzo; ma per Paco, il
più giovane dei tre camerieri che servivano a tavola, i soli che davvero
esistessero erano i toreri.
(…)
Restarono soltanto
Paco e il cameriere anziano; sbarazzarono i tavoli e portarono in cucina le bottiglie.
In cucina c’era il
ragazzo che lavava i piatti. Aveva tre anni più di Paco ed era un tipo cinico.
«Prendi» disse il
cameriere anziano e versato un bicchiere di Valdepeñas glielo porse.
«Perché no?» disse il
ragazzo prendendo il bicchiere.
«Tu, Paco?» chiese il
cameriere anziano.
«Grazie» disse Paco.
I tre bevvero.
«Vado via» disse
l’anziano.
«Buonanotte» i
ragazzi dissero.
Egli uscì ed essi
rimasero soli. Paco prese uno dei tovaglioli che i preti avevano usato e stando
eretto con i talloni fermi, spiegò basso il tovagliolo e seguendo il movimento
col capo mosse le braccia nel giro di una veronica lenta. Si voltò e
portando avanti un poco il piede destro fece il secondo passo, guadagnò un po’
di terreno sul toro immaginario e fece il terzo passo, dolce ed a tempo, poi
tirò a sé il tovagliolo e con una mezza veronica spostò i fianchi
sottraendosi al toro.
Il lavapiatti, che si
chiamava Enrique, l’osservava con occhio critico e sprezzante.
«Com’è il toro?»
chiese.
«È un gran toro»
disse Paco. «Guarda.»
Esile ed eretto, fece
quattro passi perfetti, eleganti ed armoniosi.
«E il toro?» chiese
Enrique appoggiato al lavandino. Aveva indosso il grembiale e teneva in mano il
bicchiere.
«Ancora ha tutto il
gas» disse Paco.
«Mi fai star male»
Enrique disse.
«Perché?»
«Guarda.»
Enrique si tolse il
grembiale e chiamato il toro immaginario modellò quattro perfette e languide veroniche
zingaresche e terminò con una rebolera che fece passare il grembiule
con un arco rigido sopra il muso del toro, mentre egli si scostava.
«Guarda questo»
disse. «E io sono un lavapiatti.»
«Perché?»
«Paura» disse
Enrique. «Miedo. La stessa paura l’avresti nell’arena di fronte al
toro.»
«No» disse Paco. «Io
non avrei paura.»
«Leche!»
Enrique disse. «Chiunque ha paura. Ma un torero sa dominare la sua paura e può
lavorarsi il toro. Io una volta sono stato in un combattimento per dilettanti e
non ho potuto fare a meno di scappare. Tutti si divertirono molto. Se non fosse
per la paura, qualunque lustrascarpe di Spagna farebbe il torero. Tu, ragazzino
di campagna, avresti ancora più paura di quella che ebbi io.»
«No» disse Paco.
L’aveva fatto troppe
volte nella sua immaginazione. Troppe volte aveva visto le corna, il muso umido
del toro, l’orecchio contratto, poi la testa che si abbassava per la carica,
gli zoccoli che martellavano il terreno; e il toro infuriato passava oltre
mentre egli roteava la cappa, per caricare di nuovo quand’egli di nuovo roteava
la cappa, poi di nuovo, e di nuovo, e di nuovo ancora; e infine farsi girare il
toro intorno con la grande mezza veronica, ed allontanarsi disinvolto al
passo, con alcune setole del toro rimaste impigliate negli ornamenti dorati del
giacchetto tanto s’era tenuto vicino; il toro fermo come ipnotizzato e la folla
che applaudiva. No, non avrebbe avuto paura. Altri sì. Non lui, Paco. Sapeva
che non avrebbe avuto paura. Anche se per caso avesse avuto paura sapeva di
potercela fare. Ne era sicuro. «Non avrei paura» disse.
Di nuovo Enrique
disse: «Leche!».
Poi aggiunse: «E se
provassimo?».
«Come?»
«Vedi» disse Enrique.
«Tu pensi al toro e non pensi alle corna. Il toro ha una forza tale che le
corna tagliano come coltelli, bucano come baionette, uccidono come mazze
ferrate. Guarda» aprì un cassetto del tavolo e prese due coltelli per tagliare
la carne. «Adesso lego questi alle gambe di una sedia. Poi farò il toro tenendo
la sedia in testa. I coltelli fanno da corna. Se tu fai lo stesso quei passi
vuol dire che sei bravo.»
«Dammi il grembiale»
disse Paco. «Possiamo farlo in sala da pranzo.»
«No» disse Enrique
improvvisamente serio. «Non farlo, Paco.»
«Sì» disse Paco. «Non
ho mica paura.»
«Ti verrà la paura,
quando vedi i coltelli avvicinarsi.»
«Vedremo» disse Paco.
«Dammi il grembiale.»
In quel momento,
mentre Enrique legava i coltellacci affilati alle gambe della sedia con due
tovaglioli sporchi facendoli passare stretti intorno ai manici ed annodandoli,
le due cameriere sorelle di Paco stavano andando al cinema a vedere Greta Garbo
in “Anna Christie”.
(…)
Allora, nella sala da
pranzo deserta, Enrique fece l’ultimo nodo ai tovaglioli
che legavano i
coltelli alle gambe della sedia, alzò la sedia e se la pose in testa con i due
coltelli rivolti in avanti, uno da una parte e uno dall’altra della testa.
«Pesa» disse.
«Ascolta, Paco. È molto pericoloso. Lasciamo andare.»
Sudava.
Paco gli stava di
fronte, tenendo spiegato il grembiale, reggendone stretto in ciascuna mano un
lembo, ben spiegato per attirare lo sguardo del toro.
«Carica dritto»
disse. «Girati come un toro. Carica quante volte vuoi.»
«Come farai a sapere
quando devi tagliare il passo?» chiese Enrique. «È meglio farne tre e poi una
mezza.»
«Benissimo» disse
Paco. «Ma vieni diritto. Eh, tonto! Vieni, piccolo toro!»
Correndo a testa
bassa Enrique si fece avanti e Paco manovrò il grembiale davanti alla lama del
coltello che gli passava vicino al ventre; e il coltello mentre passava fu, per
lui, il corno vero, nero e liscio e venato di bianco; ed Enrique passato oltre
che si voltava per caricare di nuovo fu la massa enorme calda di sangue del
toro che giungeva al galoppo, si girava come un gatto e tornava di nuovo mentre
egli manovrava lentamente il mantello. Poi il toro si voltò e caricò di nuovo
ed egli guardando la punta che
si avvicinava mise
troppo avanti il piede sinistro e il coltello non passò, ma s’era infilato
facilmente come in un otre di pelle e ci fu un fiotto caldo e bruciante intorno
all’acciaio improvvisamente rigido dentro di lui ed Enrique che gridava: «Ahhh!
Lascia che lo tiro fuori!» e Paco scivolò abbattendosi sopra la sedia, ancora
stringendo il grembiale-mantello, mentre Enrique tirava via la sedia e il
coltello si muoveva in lui, dentro di lui, Paco.
Il coltello era ormai
fuori ed egli sedeva sul pavimento nella pozza calda che si allargava.
«Mettici il
tovagliolo. Tienlo!» disse Enrique. «Tienlo stretto. Io corro a chiamare un
medico. Devi fermare l’emorragia.»
«Ci vorrebbe una
tazza di gomma» disse Paco. L’aveva vista usare nell’arena.
«Io ero venuto
dritto» disse Enrique piangendo. «Volevo soltanto farti vedere che era
pericoloso.»
«Non ti preoccupare»
Paco disse, e la sua voce risuonò lontana. «Ma va’ a chiamare il medico.»
Nell’arena vi
sollevano e correndo vi trasportano fino in sala operatoria. Se prima che
arriviate là l’arteria del femore si vuota, allora chiamano il prete.
«Avverti uno dei
preti» disse Paco, tenendo stretto il tovagliolo contro il basso ventre. Non
riusciva a convincersi che la cosa fosse capitata a lui.
Ma Enrique scendeva
di corsa la Carrera San Jeronimo verso il posto notturno di pronto soccorso e
Paco era solo, dapprima seduto, poi chinato, infine giù sul pavimento, finito,
sentendo uscire da sé la vita come esce l’acqua sporca da una vasca da bagno
quando si tira il turacciolo. Era spaventato e si sentiva mancare; tentò di
dire un atto di contrizione e si
ricordava il principio ma prima di riuscire a dire, più velocemente possibile,
– Mio Dio mi pento e mi addoloro di avere offeso Voi sommo bene degno di essere amato sopra tutte le cose e mi
propongo… – si sentì mancare completamente e giacque a faccia in giù sul
pavimento e presto fu tutto finito. Un’arteria femorale recisa si vuota molto
più in fretta di quanto si creda.
Quando arrivò il
medico del pronto soccorso accompagnato da un poliziotto che teneva per un
braccio Enrique, le due sorelle di Paco erano ancora nel cinematografo della
Gran Via, fortemente deluse dal film della Garbo, che mostrava la grande stella
in un ambiente miserabile mentre si era abituati a vederla circondata dal gran
lusso ed eleganza. Il pubblico disapprovava il film e protestava fischiando e
battendo i piedi.
(…)
Il ragazzo Paco non
aveva mai saputo niente di tutto questo né di quel che questa gente avrebbe
fatto il giorno dopo e il giorno dopo ancora. Non aveva nessuna idea di come
essi vivessero realmente, né di come finissero. Non si rendeva nemmeno conto
che anch’essi finivano. Morì, come si dice in Spagna, pieno di illusioni. In
vita sua non aveva avuto il tempo di perderne nessuna; nemmeno il tempo di
terminare, al momento della fine, un atto di contrizione.
Non aveva avuto
nemmeno il tempo di restar deluso al film di Greta Garbo che per una settimana
deluse tutta Madrid.
E. Hemingway, I
quarantanove racconti, trad. di G. Trevisani, Mondadori, Milano 1967
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