Pagine

11 aprile 2018

La capitale del mondo - Ernest Hemingway

Fernando Botero - La cornada

La capitale del mondo - Ernest Hemingway
Da I quarantanove racconti, 1938

Madrid è piena di ragazzi di nome Paco, che è un diminutivo di Francisco, ed a Madrid si racconta la barzelletta di quel padre che giunto a Madrid inserì su “El Liberal” un annuncio economico: “Paco attendoti hotel Montana martedì mezzogiorno tutto perdonato. Papà”; e per disperdere gli ottocento
giovanotti che risposero all’annuncio si dovette chiamare uno squadrone della Guardia Civica. Ma questo Paco, che serviva a tavola alla Pension Luarca, non aveva né un padre che gli perdonasse né cose di cui dovesse chiedere perdono al padre. Aveva due sorelle maggiori, cameriere al Luarca, le quali avevano avuto quel posto perché erano dello stesso paesetto di un’ex cameriera del Luarca che si era dimostrata onesta e lavoratrice, così procurando buona fama al proprio paese ed ai suoi prodotti. Queste
sorelle avevano pagato a Paco il viaggio in autobus fino a Madrid e gli avevano fatto avere quel posto di apprendista cameriere. Il ragazzo veniva da un paesetto sperduto dell’Estremadura, dove le condizioni di vita erano incredibilmente primitive, il cibo scarso ed ogni comfort sconosciuto; ed aveva sempre lavorato duramente da quando ricordava.
Era un ragazzo ben messo, con capelli molto neri e un po’ ricci, bei denti, una pelle che le sue sorelle gli invidiavano ed un sorriso pronto e disinvolto. Sapeva muoversi con sveltezza e faceva bene il suo lavoro, amava le sorelle che gli apparivano bellissime e raffinate; amava Madrid, luogo per lui ancora
incredibile, e amava il suo lavoro che si svolgeva tra luci splendenti, tovaglie candide, gente in abito da sera e tante cose da mangiare in cucina: tutto ciò gli appariva bellissimo in un modo romantico.
C’era al Luarca un’altra decina di persone che mangiavano in sala da pranzo; ma per Paco, il più giovane dei tre camerieri che servivano a tavola, i soli che davvero esistessero erano i toreri.
(…)
Restarono soltanto Paco e il cameriere anziano; sbarazzarono i tavoli e portarono in cucina le bottiglie.
In cucina c’era il ragazzo che lavava i piatti. Aveva tre anni più di Paco ed era un tipo cinico.
«Prendi» disse il cameriere anziano e versato un bicchiere di Valdepeñas glielo porse.
«Perché no?» disse il ragazzo prendendo il bicchiere.
«Tu, Paco?» chiese il cameriere anziano.
«Grazie» disse Paco. I tre bevvero.
«Vado via» disse l’anziano.
«Buonanotte» i ragazzi dissero.
Egli uscì ed essi rimasero soli. Paco prese uno dei tovaglioli che i preti avevano usato e stando eretto con i talloni fermi, spiegò basso il tovagliolo e seguendo il movimento col capo mosse le braccia nel giro di una veronica lenta. Si voltò e portando avanti un poco il piede destro fece il secondo passo, guadagnò un po’ di terreno sul toro immaginario e fece il terzo passo, dolce ed a tempo, poi tirò a sé il tovagliolo e con una mezza veronica spostò i fianchi sottraendosi al toro.
Il lavapiatti, che si chiamava Enrique, l’osservava con occhio critico e sprezzante.
«Com’è il toro?» chiese.
«È un gran toro» disse Paco. «Guarda.»
Esile ed eretto, fece quattro passi perfetti, eleganti ed armoniosi.
«E il toro?» chiese Enrique appoggiato al lavandino. Aveva indosso il grembiale e teneva in mano il bicchiere.
«Ancora ha tutto il gas» disse Paco.
«Mi fai star male» Enrique disse.
«Perché?»
«Guarda.»
Enrique si tolse il grembiale e chiamato il toro immaginario modellò quattro perfette e languide veroniche zingaresche e terminò con una rebolera che fece passare il grembiule con un arco rigido sopra il muso del toro, mentre egli si scostava.
«Guarda questo» disse. «E io sono un lavapiatti.»
«Perché?»
«Paura» disse Enrique. «Miedo. La stessa paura l’avresti nell’arena di fronte al toro.»
«No» disse Paco. «Io non avrei paura.»
«Leche!» Enrique disse. «Chiunque ha paura. Ma un torero sa dominare la sua paura e può lavorarsi il toro. Io una volta sono stato in un combattimento per dilettanti e non ho potuto fare a meno di scappare. Tutti si divertirono molto. Se non fosse per la paura, qualunque lustrascarpe di Spagna farebbe il torero. Tu, ragazzino di campagna, avresti ancora più paura di quella che ebbi io.»
«No» disse Paco.
L’aveva fatto troppe volte nella sua immaginazione. Troppe volte aveva visto le corna, il muso umido del toro, l’orecchio contratto, poi la testa che si abbassava per la carica, gli zoccoli che martellavano il terreno; e il toro infuriato passava oltre mentre egli roteava la cappa, per caricare di nuovo quand’egli di nuovo roteava la cappa, poi di nuovo, e di nuovo, e di nuovo ancora; e infine farsi girare il toro intorno con la grande mezza veronica, ed allontanarsi disinvolto al passo, con alcune setole del toro rimaste impigliate negli ornamenti dorati del giacchetto tanto s’era tenuto vicino; il toro fermo come ipnotizzato e la folla che applaudiva. No, non avrebbe avuto paura. Altri sì. Non lui, Paco. Sapeva che non avrebbe avuto paura. Anche se per caso avesse avuto paura sapeva di potercela fare. Ne era sicuro. «Non avrei paura» disse.
Di nuovo Enrique disse: «Leche!».
Poi aggiunse: «E se provassimo?».
«Come?»
«Vedi» disse Enrique. «Tu pensi al toro e non pensi alle corna. Il toro ha una forza tale che le corna tagliano come coltelli, bucano come baionette, uccidono come mazze ferrate. Guarda» aprì un cassetto del tavolo e prese due coltelli per tagliare la carne. «Adesso lego questi alle gambe di una sedia. Poi farò il toro tenendo la sedia in testa. I coltelli fanno da corna. Se tu fai lo stesso quei passi vuol dire che sei bravo.»
«Dammi il grembiale» disse Paco. «Possiamo farlo in sala da pranzo.»
«No» disse Enrique improvvisamente serio. «Non farlo, Paco.»
«Sì» disse Paco. «Non ho mica paura.»
«Ti verrà la paura, quando vedi i coltelli avvicinarsi.»
«Vedremo» disse Paco. «Dammi il grembiale.»
In quel momento, mentre Enrique legava i coltellacci affilati alle gambe della sedia con due tovaglioli sporchi facendoli passare stretti intorno ai manici ed annodandoli, le due cameriere sorelle di Paco stavano andando al cinema a vedere Greta Garbo in “Anna Christie”.
(…)
Allora, nella sala da pranzo deserta, Enrique fece l’ultimo nodo ai tovaglioli
che legavano i coltelli alle gambe della sedia, alzò la sedia e se la pose in testa con i due coltelli rivolti in avanti, uno da una parte e uno dall’altra della testa.
«Pesa» disse. «Ascolta, Paco. È molto pericoloso. Lasciamo andare.»
Sudava.
Paco gli stava di fronte, tenendo spiegato il grembiale, reggendone stretto in ciascuna mano un lembo, ben spiegato per attirare lo sguardo del toro.
«Carica dritto» disse. «Girati come un toro. Carica quante volte vuoi.»
«Come farai a sapere quando devi tagliare il passo?» chiese Enrique. «È meglio farne tre e poi una mezza.»
«Benissimo» disse Paco. «Ma vieni diritto. Eh, tonto! Vieni, piccolo toro!»
Correndo a testa bassa Enrique si fece avanti e Paco manovrò il grembiale davanti alla lama del coltello che gli passava vicino al ventre; e il coltello mentre passava fu, per lui, il corno vero, nero e liscio e venato di bianco; ed Enrique passato oltre che si voltava per caricare di nuovo fu la massa enorme calda di sangue del toro che giungeva al galoppo, si girava come un gatto e tornava di nuovo mentre egli manovrava lentamente il mantello. Poi il toro si voltò e caricò di nuovo ed egli guardando la punta che
si avvicinava mise troppo avanti il piede sinistro e il coltello non passò, ma s’era infilato facilmente come in un otre di pelle e ci fu un fiotto caldo e bruciante intorno all’acciaio improvvisamente rigido dentro di lui ed Enrique che gridava: «Ahhh! Lascia che lo tiro fuori!» e Paco scivolò abbattendosi sopra la sedia, ancora stringendo il grembiale-mantello, mentre Enrique tirava via la sedia e il coltello si muoveva in lui, dentro di lui, Paco.
Il coltello era ormai fuori ed egli sedeva sul pavimento nella pozza calda che si allargava.
«Mettici il tovagliolo. Tienlo!» disse Enrique. «Tienlo stretto. Io corro a chiamare un medico. Devi fermare l’emorragia.»
«Ci vorrebbe una tazza di gomma» disse Paco. L’aveva vista usare nell’arena.
«Io ero venuto dritto» disse Enrique piangendo. «Volevo soltanto farti vedere che era pericoloso.»
«Non ti preoccupare» Paco disse, e la sua voce risuonò lontana. «Ma va’ a chiamare il medico.»
Nell’arena vi sollevano e correndo vi trasportano fino in sala operatoria. Se prima che arriviate là l’arteria del femore si vuota, allora chiamano il prete.
«Avverti uno dei preti» disse Paco, tenendo stretto il tovagliolo contro il basso ventre. Non riusciva a convincersi che la cosa fosse capitata a lui.
Ma Enrique scendeva di corsa la Carrera San Jeronimo verso il posto notturno di pronto soccorso e Paco era solo, dapprima seduto, poi chinato, infine giù sul pavimento, finito, sentendo uscire da sé la vita come esce l’acqua sporca da una vasca da bagno quando si tira il turacciolo. Era spaventato e si sentiva mancare; tentò di dire un atto di contrizione  e si ricordava il principio ma prima di riuscire a dire, più velocemente possibile, – Mio Dio mi pento e mi addoloro di avere offeso Voi sommo bene degno  di essere amato sopra tutte le cose e mi propongo… – si sentì mancare completamente e giacque a faccia in giù sul pavimento e presto fu tutto finito. Un’arteria femorale recisa si vuota molto più in fretta di quanto si creda.
Quando arrivò il medico del pronto soccorso accompagnato da un poliziotto che teneva per un braccio Enrique, le due sorelle di Paco erano ancora nel cinematografo della Gran Via, fortemente deluse dal film della Garbo, che mostrava la grande stella in un ambiente miserabile mentre si era abituati a vederla circondata dal gran lusso ed eleganza. Il pubblico disapprovava il film e protestava fischiando e battendo i piedi.
(…)
Il ragazzo Paco non aveva mai saputo niente di tutto questo né di quel che questa gente avrebbe fatto il giorno dopo e il giorno dopo ancora. Non aveva nessuna idea di come essi vivessero realmente, né di come finissero. Non si rendeva nemmeno conto che anch’essi finivano. Morì, come si dice in Spagna, pieno di illusioni. In vita sua non aveva avuto il tempo di perderne nessuna; nemmeno il tempo di terminare, al momento della fine, un atto di contrizione.
Non aveva avuto nemmeno il tempo di restar deluso al film di Greta Garbo che per una settimana deluse tutta Madrid.
E. Hemingway, I quarantanove racconti, trad. di G. Trevisani, Mondadori, Milano 1967


Nessun commento:

Posta un commento