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11 aprile 2018

Ulisse - Alfred Tennyson

Metaponto (Matera) - Resti di colonne complesso archeologico
Ulisse - Alfred Tennyson 
 
Re neghittoso alla vampa del mio focolare tranquillo
star, con antica consorte, tra sterili rocce, non giova
e misurare e pesare le leggi ineguali a selvaggia
gente che ammucchia, che dorme, che mangia e che non mi conosce.

Starmi non posso dall’errar mio: vuò bere la vita
sino alla feccia. Per tutto il mio tempo ho molto gioito,
molto sofferto, e con quelli che in cuor mi amarono, e solo;
tanto sull’arida terra, che quando tra rapidi nembi
l’Iadi piovorne travagliano il mare velato di brume.

Nome acquistai, ché sempre errando con avido cuore
molte città vidi io, molti uomini, e seppi la mente
loro, e la mia non il meno; ond’ero nel cuore di tutti:
e di lontane battaglie coi pari io bevvi la gioia,
là nel pianoro sonoro di Troia battuta dal vento.

Ciò che incontrai nella mia strada,ora ne sono una parte.
Pur,ciò ch’io vidi è l’arcata che s’apre sul nuovo:
sempre ne fuggono i margini via, man mano che inoltro.

Stupida cosa il fermarsi,il conoscersi un fine, il restare
sotto la ruggine opachi né splendere più nell’attrito.

Come se il vivere sia quest’alito!vita su vita
poco sarebbe,ed a me d’una, ora,un attimo resta.

Pure, è un attimo tolto all’eterno silenzio, ed ancora
porta con sé nuove opere, e indegna sarebbe, per qualche
due o tre anni, riporre me stesso con l’anima esperta
ch’arde e desìa di seguir conoscenza: la stella che cade
oltre il confine del cielo, di là dell’umano pensiero.

Ecco mio figlio, Telemaco mio, cui ed isola e scettro
lascio; che molto io amo; che sa quest’opera, accorto,
compiere; mansuefare una gente selvatica, adagio,
dolce, e così via via sottometterla all’inutile e al bene.

Irreprensibile egli è, ben nel mezzo ai doveri,
pio, che non mai mancherà nelle tenere usanze, e nel dare
il convenevole culto agli dei della nostra famiglia,
quando non sia qui io: il suo compito e’ compie; io, il mio.

Eccolo il porto, laggiù: nel vascello si gonfia la vela:
ampio nell’oscurità si rammarica il mare. Compagni
cuori ch’avete con me tollerato, penato, pensato,
voi che accoglieste, ogni ora, con gaio ed uguale saluto
tanto la folgore, quanto il sereno, che liberi cuori,
liberi fronti opponeste: oh! Noi siam vecchi, conpagni;
pur la vecchiezza anch’ella ha il pregio, ha il compito: tutto
chiude la Morte; ma può qualche opera compiersi prima
D’uomini degna che già combatterono a prova coi Numi!
Già da’ tuguri sui picchi le luci balenano: il lungo
giorno dilegua, al luna insensibile monta; l’abisso
geme e sussurra all’intorno le mille sue luci. Venite:
tardi non è per coloro che cercano un mondo novello.

Uomini, al largo, e sedendovi in ordine, i solchi sonori
via percotete: ho fermo nel cuore passare il tramonto
ed il lavacro degli astri di là: fin ch’abbia la morte.

Forse è destino che i gorghi del mare ci affondino; forse,
nostro destino è toccar quelle isole della Fortuna,
dove vedremo l’a noi già noto, magnanimo Achille.

Molto perdemmo, ma molto ci resta: non siamo la forza
più che nei giorni lontani moveva la terra ed il cielo:
noi, s’è quello che s’è: una tempera d’eroici cuori,
sempre la stessa: affraliti dal tempo e dal fato, ma duri
sempre in lottare e cercare e trovare né cedere mai.

trad. Giovanni Pascoli

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