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18 giugno 2018

da “I biscotti di Baudelaire” - Alice Toklas

Vincent van Gogh - Brushstroke
da “I biscotti di Baudelaire” - Alice Toklas

Oltre alle verdure, nel nostro orto crescevano molte varietà di frutta. Oltre alle fragole c’erano i lamponi, che duravano dalla fine di maggio a tutta l’estate, fino a dicembre... nemmeno la prima neve li scoraggiava. Crescevano in un angolino protetto e costituivano uno spettacolo delizioso. Ogni pianta era attaccata a tre fili di ferro e aveva sei rami, tre da una parte e tre dall’altra. Nel vederli per la prima volta non si capiva che cosa fossero quelle macchie di colore. Non me ne capacitavo, erano sempre una sorpresa, una novità, ogni mattina. Curarli era un piacere, non una fatica, e la loro bellezza e prolificità erano un compenso più che adeguato. In primavera i rami venivano legati ai fili, e l’operazione veniva ripetuta anche più tardi, in modo che il peso dei frutti non li spezzasse. Quando spuntavano germogli alla radice, se ne staccavano tre o quattro tra i più robusti o li si trapiantava per l’anno dopo. Le piante che crescevano già nell’orto al nostro arrivo davano frutti rossi. Dopo esserci assicurate l’affitto della casa per un lungo periodo, piantammo quarantotto lamponi bianchi nell’orto più in alto. Non prosperavano come quelli rossi. Dato che era lontano dall’acqua e trascinare il tubo di gomma fin lassù era molto faticoso, l’orto in alto era stato scelto per coltivare le verdure più comuni, patate, fagioli, zucche, zucchine, cetrioli. Nell’orto in basso non c’era posto per altri lamponi. Quelli bianchi vennero piantati vicino ai ribes, rossi bianchi e neri, e all’uva spina.
L’uva spina che si coltiva in Francia è quattro o cinque volte più grossa di quella che si trova negli Stati Uniti, e molto più dolce. Noi ne coltivavamo una varietà color lampone. La si coltiva come l’olivo, rimuovendo i germogli centrali appena spuntano, per dar luce e sole alla pianta. Ogni anno le vespe facevano il nido sul tronco di uno dei cespugli e dovevo toglierlo con un coltello affilato. Api, vespe e calabroni mi pungono raramente, anche se li aggredisco. Gertrude Stein non li trova simpatici, e non le piacevano troppo nemmeno i ragni, i millepiedi e i pipistrelli. Non si agitava troppo se li vedeva all’aperto, ma se ne trovava uno dentro casa si metteva a gridare aiuto. Per liberarsene ci voleva ostinazione, una scopa, alcuni giornali e un paio di tenaglie. Con questi strumenti si poteva star tranquilli.
Ecco la storia di due nostri amici, un’ammirevole storia di amore coniugale. Lei non voleva che il marito si annoiasse, si preoccupasse o si inquietasse. Durante i primi tempi del loro matrimonio gli fece credere di essere spaventata a morte dai ragni. Tutte le volte che lo vedeva preoccupato o inquieto lanciava un urlo, tesoro, un ragno; laggiù, caro, non lo vedi? Lui arrivava di corsa con un fazzoletto, lo metteva sul posto che lei indicava, raccoglieva il ragno immaginario e lo buttava in giardino. La moglie si toglieva le mani dalla faccia e diceva con un sospiro di sollievo, Come sei buono e paziente, amore mio.
Nell’orto in alto cresceva anche il rabarbaro. Due o tre torte di rabarbaro all’anno non valevano lo spazio occupato dalla pianta e così la strappammo e la gettammo sul mucchio del concime. La stessa cosa successe ai meloni dopo il primo anno. Richiedevano troppe cure. A Parigi avevano una stanzetta che Gertrude Stein chiamava il Salon des refusés, dal nome del posto in cui gli Impressionisti avevano fatto una mostra l’anno in cui erano stati rifiutati al Salon vero e proprio. Nel nostro c’erano i quadri che Gertrude Stein aveva scartato: li aveva comperati per scoprire se le piacevano o meno e alla fine li aveva trovati poco interessanti. Nell’orto era più semplice. Quando i refusés venivano strappati e buttati sul mucchio del letame, nessuno si offendeva.
L’altra frutta non era buona e abbondante come i lamponi e i ribes. Quando arrivammo a Bilignin c’erano un albero di pere, uno di mele e uno di prugne nell’orto, tutti vecchi. Col permesso del nostro padrone di casa, togliemmo subito l’albero di prugne. Facemmo di tutto per salvare il pero, di un bel rosa scuro, ma inutilmente. Ci restò solo uno stupendo melo. Aspettammo tre anni, e quando firmammo il contratto di affitto a lungo termine piantammo meli, peschi, albicocchi e mandarini. I francesi piantano gli alberi da frutto alla vecchia maniera, lungo il lato del muro esposto al sole. Noi avevamo due muri del genere, e uno era in parte occupato da un vecchio, bellissimo alloro.
Quell’alloro era fonte di continua delizia. Avevamo delle rose color malva che stavano benissimo in mezzo alle foglie di alloro. Ce n’era sempre un mazzo nelle stanze dei nostri giovani ospiti, scrittori, pittori e qualche volta anche musicisti, come simbolo di gloria futura. Nessuno si rese mai conto delle fatidiche foglie.
Quando arrivava l’autunno il raccolto ci teneva così occupate che dimenticavamo di dover tornare a Parigi. Non solo bisognava raccogliere le verdure invernali e lasciarle asciugare al sole per una giornata, ma anche buttare foglie e gambi sul mucchio di letame. Il giorno in cui vedevo i cestini pieni di verdure era il più bello dell’anno, per me. Il sole splendeva sull’arancio delle carote, sulle zucche rosse verdi gialle e bianche, sulle melanzane viola e sugli ultimi pomodori rossi. Solo guardarli faceva impallidire tutti i piaceri e le soddisfazioni dell’annata. Gertrude Stein assunse un atteggiamento più pratico nei confronti del raccolto. Arrivò nell’orto freddo, umido e nudo, diede un’occhiata a tutti quei cestini e quelle cassette e chiese se avevo intenzione di spedirli tutti a Parigi, perché in questo caso le spese postali ci avrebbero mandato in malora. Pensava che ci fossero verdure per un reggimento e mi ricordò che il nostro ménage comprendeva solo tre persone. Non si poteva negare che, dal punto di vista economico, il raccolto fosse disastroso, ma da quello della soddisfazione personale, pratica ed estetica, era sublime.
Lasciammo definitivamente i nostri orti un freddo giorno d’inverno, in perfetta sintonia con il nostro stato d’animo e il mondo. Un improvviso raggio di sole riempì l’orto di tutti gli amici e i conoscenti che ci erano passati. Ah, ci sarebbe stato un altro orto, avremmo rivisto gli amici e ce ne saremmo fatti di nuovi, ci sarebbero state altre storie da raccontare e da ascoltare. E così lasciammo Bilignin, per non tornare.
E adesso mi diverte ricordare che confidai questo mio progetto solo due volte, a due amici, nell’orto più alto. Il primo rispose allegramente: Divertente! L’altro mi chiese, non poco preoccupato: Ma, Alice, hai mai provato a scrivere? Come se un libro di cucina avesse qualcosa a che fare con lo scrivere.

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