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23 giugno 2018

da “Instambul” - Orhan Pamuk

da “Instambul” - Orhan Pamuk

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Palazzo Pamuk era stato costruito, a NiÇantaÇi, al confine di un vasto terreno che un tempo era il giardino di una grande casa signorile, dimora di un pascià. Il quartiere NiÇantaÇi ha preso il suo nome dalle tavolette di pietra che indicavano il luogo dove cadevano le frecce scoccate, sulle colline deserte, dai sultani riformisti e sostenitori dell’occidentalizzazione, tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo (Selim III, Mahmut II), per sport o per diletto, e dove venivano rotte le brocche vuote contro cui sparavano, a volte, con i fucili (sopra le tavolette erano incisi un paio di versi che narravano le loro gesta). Quando i sultani ottomani abbandonarono Palazzo Topkapi, sia perché attratti dall’idea di comfort occidentale e di novità sia per fuggire alla tubercolosi, e si sistemarono nei nuovi palazzi costruiti a Dolmabahçe e a Yildiz, i visir, i gran visir e i principi fecero costruire ville signorili di legno sulla collina di NiÇantaÇi. Io iniziai le elementari nella casa del gran visir Yusuf Izzettin Pascià (il liceo IÇik), e continuai i miei studi nella casa del gran visir Halil Rifat Pascià (il liceo ÇiÇli Terakki). Queste due case, quando ancora studiavo e giocavo a pallone nei loro giardini, hanno preso fuoco e sono andate distrutte dalle fiamme. Il palazzo di fronte al nostro era stato costruito sulle rovine della casa signorile del ciambellano Faik Bey. L’unica villa vecchia e solida nei dintorni era la costruzione di pietra, edificata alla fine del XIX secolo, in cui avevano abitato i gran visir; lì, quando era crollato l’impero ottomano e la capitale era stata trasferita ad Ankara, erano stati ospitati i prefetti. Per la vaccinazione contro il vaiolo andavo nella casa signorile di un altro pascià, che ormai veniva usata come sottoprefettura. La villa, sede degli Affari esteri, dove alloggiavano gli ospiti occidentali dell’impero ottomano, le case delle figlie del sultano Abdülhamit e i resti delle ville crollate - muri di mattoni, frammenti di vetri rotti, un paio di gradini ormai a pezzi e un miscuglio di felci e fichi che in me creano ancora oggi una profonda tristezza, ricordandomi i tempi dell’infanzia - non erano ancora stati spazzati via dai nuovi palazzi.
Dalle finestre posteriori del nostro alloggio in viale TeÇvikiye si vedeva, al di là dei cipressi e dei tigli del giardino, la casa signorile costruita dal tunisino Hayrettin Pascià, che era stato gran visir per un breve periodo durante la guerra ottomano-russa. Il pascià, che era un circasso nato nel Caucaso dieci anni prima che Flaubert scrivesse «Vorrei stabilirmi a Istanbul e prendermi uno schiavo», negli anni intorno al 1830, quando era ancora un bambino, fu venduto come schiavo prima a Istanbul, e poi al prefetto della Tunisia; trascorse così la sua giovinezza in Francia, ma crebbe imparando la lingua e la cultura araba, e quando entrò nell’esercito, in Tunisia, fece carriera fino a raggiungere incarichi di alto livello e fu comandante, prefetto, diplomatico e consulente finanziario, vivendo sino al suo ritiro, verso i sessant’anni, a Parigi.
Qui Abdülhamit l’aveva fatto chiamare (su suggerimento dello sceicco Zafiri, che era anche lui tunisino), e dopo avergli affidato alcuni suoi affari l’aveva nominato gran visir. Si contò molto sul pascià, che era uno dei primi esempi particolari, in Turchia (e nei paesi poveri), di finanziere-amministratore a essere stato chiamato da una nazione occidentale per salvare il paese dai debiti, proprio perché non era troppo ottomano, indigeno e turco - come i suoi successori – e ormai aveva acquisito una mentalità occidentale, pervasa di sogni di riforma, ma poi fu criticato esattamente per gli stessi motivi, cioè perché non era abbastanza turco e indigeno. Secondo certe voci, il tunisino Hayrettin Pascià, quando tornava da palazzo, nella carrozza su cui saliva prendeva nota dei suoi colloqui in arabo e poi li faceva tradurre in francese dal suo scrivano. A causa delle dicerie messe in giro dai suoi oppositori sul fatto che non conoscesse abbastanza la lingua turca, e poiché alcuni temevano che il suo scopo segreto fosse fondare uno stato arabo (Abdülhamit prestava fede anche alle denunce che gli sembravano poco probabili), venne allontanato dal suo incarico.
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