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24 giugno 2018

da A tavolacon lemuse - Ilaria Crocetti e Beniamino Mirisola

da A tavolacon lemuse - Ilaria Crocetti e Beniamino Mirisola
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Cucine, taverne, sale da pranzo, caffè, sagre paesane, luoghi istituzionali o d’occasione al cibo deputati segnano le orbite di Carlo Altoviti attraverso la Penisola, e oltre i suoi confini, lungo ottant’anni di storia, con una funzione innanzitutto mimetica, come prescrive il canone, ma ovviamente non solo
mimetica. Al principio è ovviamente la cucina di Fratta ingigantita dalla percezione di Carlo bambino e filtrata dall’esperta ironia del narratore ottuagenario.
È un luogo immenso per perimetro e volumi, «un vasto locale d’un indefinito numero di lati» che si alza «verso il cielo come una cupola e sprofonda verso terra più d’una voragine» in una sorta di parodica cosmologia dantesca, sede di riti sacri e profani, regno insieme della luce e delle tenebre. Annerito «d’una fuliggine secolare, sulla quale splendevano
come tanti occhioni diabolici i fondi delle cazzeruole, delle leccarde e delle guastade», ha «tavole sterminate», «enormi credenze», «armadii colossali», «un enorme attizzatojo» e nel focolare «due alari giganteschi». Tra utensili e stoviglie nella cucina di Fratta sfila buona parte del repertorio alimentare del romanzo, con una concentrazione che non troverà pari nel corso della narrazione: «un eterno gorgoglio di fagiuoli in mostruose pignatte», uno «straordinario consumo di minestre» che determina un continuo grattar di formaggio, capponi, anitre, spiedi «di lepri e di selvaggina» e poi, sempre appeso a un gancio, «un cesto pieno di polenta» accessibile e salvifico per Carlino escluso da tanta abbondanza.
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