dipinto di David Farrant
Monologo di un cane coinvolto nelle storia - Wislawa SzymborskaCi sono cani e cani. lo ero un cane eletto.
Con un buon pedigree e sangue di lupo nelle vene.
Abitavo su un’altura, inalando profumi di vedute
su prati soleggiati, abeti bagnati dalla pioggia
e zolle di terra tra la neve.
Avevo una bella casa e servitù.
Ero nutrito, lavato, spazzolato,
condotto a fare belle passeggiate.
Ma con rispetto, senza confidenze.
Tutti sapevano bene di chi ero.
Ogni bastardo rognoso è capace di avercelo un padrone.
Attenti però – lungi dai paragoni.
Il mio padrone era unico nel suo genere.
Una muta imponente lo seguiva a ogni passo
fissandolo con ammirazione timorosa.
Per me c’erano sorrisetti
di malcelata invidia.
Perché solo io avevo diritto
di accoglierlo con salti veloci,
solo io – di salutarlo tirandogli i calzoni.
Solo a me era permesso,
con la testa sulle sue ginocchia,
accedere a carezze e tirate di orecchie.
Solo io con lui potevo far finta di dormire,
e allora si chinava sussurrandomi qualcosa.
Con gli altri si arrabbiava spesso, ad alta voce.
Ringhiava, latrava contro di loro,
correva da una parete all’altra.
Penso che solo a me volesse bene,
e a nessun altro, mai.
Avevo anche doveri: aspettare, fidarmi.
Perché compariva per poco e spariva per molto.
Non so cosa lo trattenesse là, nelle valli.
Intuivo però che si trattava di faccende pressanti,
perlomeno pressanti
quanto per me lottare con i gatti
e tutto ciò che si muove inutilmente.
C’è destino e destino. Il mio mutò di colpo.
Giunse una primavera,
e lui non era accanto a me.
In casa si scatenò uno strano andirivieni.
Bauli, valigie, cofani cacciati nelle auto.
Le ruote sgommando scendevano giù in basso
e si zittivano dietro la curva.
Sulla terrazza bruciavano vecchiumi, stracci,
casacche gialle, fasce con emblemi neri
e molti, moltissimi cartoni fatti a pezzi
da cui cadevano fuori bandierine.
Gironzolavo in quel caos
più stupito che irato.
Sentivo sul pelo sguardi sgradevoli.
Quasi io fossi un cane abbandonato,
un randagio molesto
che già dalle scale si scaccia con la scopa.
Uno mi strappò il collare borchiato d’argento.
Uno diede un calcio alla ciotola da giorni vuota.
E poi l’ultimo, prima di partire,
si sporse dalla cabina di guida
e mi sparò due volte.
Neanche capace di colpire nel segno,
così la mia morte fu lenta e dolorosa
nel ronzio di mosche spavalde.
Io, il cane del mio padrone.
da Wislawa Szymborska. La gioia di scrivere, tutte le poesie (1945 – 2009)
a cura di Pietro Marchesani - Adelphi Editore
Nessun commento:
Posta un commento