dipinto di Fernando Botero, dettaglio
da “Gli amori
difficili – Italo Calvino
L'avventura di un
soldato, (1949)
(…)
La mano, nascosta
sotto la nera giacchetta, era rimasta quasi staccata da lui, rattrappita e con
dita risucchiate verso il polso, non più una vera mano, ormai senza sensibilità
se non quella arborea delle ossa. Ma poiché la tregua data dalla vedova alla
propria impassibilità con quell'imprecisa occhiata in giro aveva presto avuto
fine, nella mano rifluì sangue e coraggio. E fu allora che riprendendo contatto
con quella morbida groppa di gamba egli s'accorse d'esser giunto a un limite:
le dita scorrevano sull'orlo della gonna, più in là c'era lo sbalzo del
ginocchio, il vuoto. Era la fine, pensò il fante Tomagra, di questa baldoria
segreta: e adesso, a ripensarci, essa appariva una ben misera cosa ai suoi
ricordi, sebbene egli l'avesse avaramente ingigantita nel viverla: una goffa carezza
su una veste di seta, qualcosa che non poteva in alcun modo venirgli negata,
proprio per quella sua pietosa condizione di soldato, e che discretamente la
signora s'era degnata, senza farne mostra, di concedergli.
Però, nell'intenzione
di ritrarre, desolato, la mano, fu interrotto dall'accorgersi di come lei
teneva la giacchetta sulle ginocchia: non più piegata (eppure tale prima gli
era parsa), bensì gettata con trascuratezza in modo che un lembo le piovesse
sul davanti delle gambe. Era in una chiusa tana, così: un'ultima prova, forse,
di fiducia che la signora gli concedeva, sicura che la sproporzione tra lei e
il soldato era tanta ch'egli non ne avrebbe certo profittato. E il soldato
rievocava, con fatica, quello che fino allora era passato tra la vedova e lui,
cercando di scoprire qualcosa nel ricordo del contegno di lei che accennasse a
un condiscendere più oltre, e ripensava i propri gesti ora come d'una levità irrilevante,
sfioramenti e strofinamenti casuali, ora come d'un'intimità decisiva, che lo
impegnavano a
non più tirarsi
indietro.
La sua mano certo
cedette a quest'ultimo modo del ricordo, perché, prima ch'egli avesse ben
riflettuto sull'irreparabilità dell'atto, ecco che già superava il valico. E la
signora? Dormiva. Aveva abbandonato il capo, col fastoso cappello, contro un
angolo, e teneva gli occhi chiusi. Doveva lui, Tomagra, rispettare questo
sonno, vero o finto che fosse, e ritirarsi? O era un espediente di donna
complice, ch'egli avrebbe dovuto già conoscere, e di cui doveva in qualche modo
mostrare gratitudine? Il punto dove ormai era giunto non consentiva indugi; non
gli restava che avanzare.
La mano del fante
Tomagra era piccola e corta, e le durezze e callosità d'essa erano bene
compenetrate nel muscolo così da renderla morbida e uniforme; l'osso non vi si
sentiva e il muoversi era fatto più di nervi, ma con dolcezza, che di falangi.
E questa piccola mano aveva movimenti continui e generali e minuscoli, per
tenere la completezza del contatto viva e accesa. Ma quando finalmente un primo
sommovimento passò per la morbidezza della vedova, come un trasportarsi di
lontane correnti marine per segrete vie subacquee, il soldato ne fu così
sorpreso che, proprio come se supponesse che la vedova non si fosse fino allora
accorta di nulla, avesse dormito veramente, spaventato ritirò via la mano.
Ora egli se ne
restava con le mani sulle proprie ginocchia, rattrappito sul sedile come quando
lei era entrata: si comportava in un modo assurdo, lo comprese. Allora, con uno
scalpicciare di tacchi, uno sgranchirsi d'anche parve ansioso di ristabilire i
contatti, ma pure quella sua prudenza era assurda, come volesse ricominciare da
capo il suo pazientissimo lavoro e non fosse sicuro ormai delle profonde mete
già raggiunte. Ma le aveva davvero raggiunte? Oppure era stato solo un sogno?
Una galleria piombò
loro addosso. Il buio si faceva sempre più fitto e Tomagra allora, prima con
gesti timidi, ogni tanto ritraendosi come fosse davvero ai primi approcci e si
meravigliasse del suo ardire, poi sempre più cercando di convincersi
dell'estrema confidenza cui già con quella donna era arrivato, avanzò una mano
trepida come una gallinella verso il seno, grande e un po’ abbandonato alla sua
pesantezza, e con un affannoso brancolare cercava di spiegarle la miseria e
l'insostenibile felicità del suo stato, e il suo bisogno, non d'altro, ma che
lei uscisse da quel suo riserbo.
La vedova reagì
infatti, ma con un improvviso gesto di schermirsi e respingerlo. Bastò a
rincantucciare Tomagra nel suo angolo, torcendosi le mani. Ma era, probabilmente,
un falso allarme per una luce passata nel corridoio che aveva messo la vedova
in timore d'un'improvvisa fine della galleria. Forse: oppure lui aveva passato
il segno, aveva commesso qualche orribile scorrettezza verso di lei, già tanto
generosa?
No, non poteva
esserci ormai nulla di proibito, tra loro: e il gesto di lei, anzi, era un
segno che tutto ciò era vero, che lei accettava, partecipava. Tomagra
s'avvicinò di nuovo. Certo in queste riflessioni si era perduto molto tempo, la
galleria non sarebbe durata ancora a lungo, non era prudente farsi cogliere
dalla luce improvvisa, già Tomagra attendeva il primo ingrigirsi della parete,
ecco: più lui aspettava, più rischioso era il tentare, certo però la galleria
era lunga, lui dagli altri suoi viaggi la ricordava lunghissima, certo se
subito avesse approfittato avrebbe avuto molto tempo innanzi a sé, ora era
meglio attendere la fine, ma perché non finiva mai, forse questa era stata
l'ultima occasione per lui, ecco si diradava l'ombra, ora finiva.
(…)
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