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6 agosto 2018

da “La signora del miele” - Fanny Buitrago

dipinto di Fernando Botero
da “La signora del miele” - Fanny Buitrago
(…)
L’ultima visita di condoglianze fu quella di Clavel Quintanilla. arrivò una domenica verso il crepuscolo, mentre Galaor si agghindava per andare a una messa per l’anima di sua madre, fatta dire dalle signorine Arantza. Dona Ramonita era morta da sei mesi.
Teodora stava insaponando le camicie bianche di Galaor, gli indumenti intimi di flanella, i fazzoletti finemente marcati con le sue iniziali. Quando aprì la porta aveva le mani bagnate e un grembiule di plastica sopra il vestito della festa. Clavel la prese per una domestica. Senza disturbarsi a salutare e con fare altezzoso chiese:
“E’ in casa Galaor? Sono la sua nuova vicina, Clavel Quintanilla. Sono venuta a fargli le condoglianze”.
Teodore era così stanca che mentre rispondeva soffocò due sbadigli. Circostanza di cui approfittò la sconosciuta per entrare in casa muovendosi come una palma al vento. Era vestita a lutto, senza trucco; sembrava che la morte di dona Ramonita l’addolorasse intimamente. I suoi occhi, dilatati, ardevano di un intenso fulgore, che Teodora scambiò per pianto trattenuto. Non fece caso alla seta nera incollata alle curve prominenti, né alla scollatura che metteva in risalto i seni rotondi e non la insospettì nemmeno l’aroma di verbena che impregnava i lunghi capelli ricciuti. Aveva una montagna di panni in lavanderia, doveva impastare dieci budini alle prugne. Tuttavia credette alle parole di Galaor quando questi, col viso sconvolto dal dolore, le disse:
“Meglio che ci vada tu alla messa al posto mio. Non mi sento molto bene. E non voglio piangere in pubblico la perdita di mia madre”.
Teodora non fece in tempo a varcare la soglia che la porta si stava già chiudendo con spranghe e catenacci. Una passione elettrizzante zampillava dalle fessure mentre Galaor Ucròs e Clavel Quintanilla si guardavano e si palpeggiavano ansiosi, snervati, sul punto di mandare faville. Perché quello fu sesso a prima vista. Senza colpo di fulmine, senza preamboli, senza ammiccamenti o smancerie.
In chiesa Teodora continuava a starsene come in un limbo. Fra gesti sdegnosi, lievi storcimenti di labbra, fini sopracciglia inarcate. Offese, le eleganti signorine Arantza non le rivolsero neppure un saluto. E lei, con il suo abito bianco e nero, il messale e il rosario, le scarpe a mezzo tacco, si inginocchiò devota, umile, nell’ultimo banco. Riuscì a sussurrare “Nel nome del Padre e del Figlio…” al ritmo del celebrante, e aspirò l’aroma dei gigli, la mirra del suffumigio, l’effluvio di colonia e naftalina che emanava da sottovesti e mantiglie.
“Signorina Vencejos!”
(…)

Traduzione di Antonella Donazzan

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