dipinto di Fernando Botero
da “La signora del miele”
- Fanny Buitrago
(…)
Il
parroco, don Imeldo Villamarìn, dovette scuoterla energicamente alla fine della
messa. Teodora, immobile, con la schiena ricurva, dormiva profondamente.
“Risplenda
alla mia madrina la luce perpetua…” mormorò scorgendo il sacerdote.
“Dona
Ramona Céspedes de Ucròs ha un posto in purgatorio,” sentenziò don Imeldo. “Là
non ci sono luce perpetua, splendori o aurore boreali.”
“Dio
non lo voglia,” disse Teodora facendosi il segno della croce.
“Deve
pagare le vigliaccherie che ha fatto a te.”
“…A
me? E’ stata una buona madrina. Mi ha cresciuta e ha badato a me per molti
anni.”
“Io,
se fossi in te, andrei dal notaio. Lui ha documenti e beni che ti appartengono.
E adesso, via! Fuori di qui! E’ ora di chiudere. Anche noi preti abbiamo
bisogno di riposo. E tu, figlia mia… non dormi di notte?”
“C’è
tanto da fare…” Teodora chinò la testa. “Galaor esige molte cure e io ne sono
responsabile. La mia madrina ha disposto così.”
“Tu
non sei responsabile di un bel niente!” ribatté don Imeldo. “Vattene da quella
casa o dopo sarà troppo tardi!”
Disse
anche tante altre cose. Parlò del rispetto della verità, del libero arbitrio.
ma Teodora doveva ancora fare la pasta sfoglia, preparare lo sciroppo di
ciliegie, montare gli spumoni. Avrebbe dormito un po’ se gliene fosse rimasto
il tempo.
Al
ritorno aveva già dimenticato il “vattene da quella casa!” detto dal sacerdote.
Lo considerava un vecchio brontolone cui piaceva intromettersi nella vita degli
altri. Come poteva abbandonare il giovane Galaor? Non se ne parlava proprio!
Era la sua eredità. Era così tenero, indifeso e bello che… Le bastava pensare a
lui per sentirsi leggera, serafica, con i pensieri tinti d’azzurro. Invece,
quando si imbatteva in quel tale Manuel Amiel, studente a Parigi, strane
stilettate le correvano lungo la colonna vertebrale. Mani brucianti le
attanagliavano le viscere. Chiaro che tutto ciò era un segreto. Teodora non
osava neanche ammettere quei deliqui sensoriali.
Fortunatamente,
Manuel Amiel veniva in paese soltanto per le vacanze.
Assorta
nei suoi pensieri, Teodora Ignorò gli sguardi maschili e le frasi galanti che
si alzavano al suo passaggio. Avrebbe preparato la cena per Galaor prima di
continuare le sue faccende. Lunedì sarebbe stata una giornata di duro lavoro.
Anche lei si meritava uno spuntino.
Ohé
Senza muovermi,
senza ridere,
senza parlare,
fai una giravolta…
Così
cantava Peruchito , il figlio di Argenis, la bottegaia, mentre lanciava la
palla contro un muretto.
“Falla un’altra volta!” il bambino girò
su se stesso, prese la palla fra le mani sporche e rimase a guardare Teodora a
bocca aperta.
“Ciao
Peruchito!”
“Mamma…!
Corri, mamma!” gridò intimidito. “C’è qui la signorina Teodora!” Dona Argenis
uscì dal negozio tutta ilare, congestionata, lisciandosi la gonna. Le sue
labbra erano uno stramonio di rosso, gonfio di baci e di morsi. Dietro di lei
arrivava Rufino, il marito, un omaccione rubicondo dalle mani enormi, tirandosi
su furtivamente la cerniera dei pantaloni.
“Signorina
Teodora…”
Teodora
era una buona cliente del negozio. Argenis e Rufino la stimavano. Gentile,
umana, non chiedeva mai niente a credito. e non tentava nemmeno di andarsene
senza pagare come facevano tante altre.
(…)
Traduzione di
Antonella Donazzan
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