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14 agosto 2018

da “Malte Laurids Brigge” – Rainer Maria Rilke

dipinto di Kenne Gregoire
da “Malte Laurids Brigge” – Rainer Maria Rilke
Bibliothèque Nationale
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Questo fu due settimane fa. Ma ora non passa quasi giorno senza un incontro di quel genere. Non solo al crepuscolo, ma anche a mezzogiorno e nelle strade più affollate accade che a un tratto un ometto o una vecchia si presentino, ammicchino indicandomi qualcosa e spariscano di nuovo come se il loro compito fosse terminato. È possibile che un giorno pensino di venire fino in camera mia; sanno certo dove abito e si comporteranno
in modo che il portiere non li fermi. Ma qui, miei cari, sono al sicuro da voi. Bisogna avere una tessera speciale per entrare in questa sala. Questa tessera mi distingue da voi. Vado un po’ timido per strada, è naturale, ma poi arrivo davanti alla porta a vetri, la apro come se fossi di casa, mostro la mia tessera alla porta successiva (molto semplicemente, come voi mostrate i vostri oggetti, solo con la differenza che la gente mi capisce, capisce che cosa voglio) e finalmente mi trovo fra questi libri. Sono fuggito a voi come se fossi morto; siedo e leggo un poeta. Sapete voi che cos’è un poeta? Verlaine... Nulla? Nessun ricordo? No. Non fate differenza fra quelli che conoscete? Lo so, voi non fate mai differenze. Ma è un altro poeta quello che io leggo, uno che non abita a Parigi. Del tutto diverso. Un poeta che ha una casa tranquilla nei monti. Che ha il suono di una campana nell’aria limpida. Un poeta felice che racconta delle sue finestre, delle vetrine della sua libreria dove si specchia assorta una cara profondità solitaria. Proprio il poeta che avrei voluto diventare: perché egli sa molto delle fanciulle e anch’io avrei saputo molto di loro. Egli sa di fanciulle che sono vissute cent’anni fa; e non fa nulla che siano morte, perché egli sa tutto di loro. E questa è la cosa importante. Egli pronuncia i loro nomi, quei nomi leggeri, scritti a grandi caratteri slanciati, con gli svolazzi di un tempo, e i nomi maturi delle loro amiche più grandi in cui risuona già un po’ di destino, un po’ di delusione e di morte. Forse in un angolo della sua scrivania di mogano riposano le loro lettere sbiadite, i fogli sciolti dei loro diari in cui sono raccolti compleanni, gite d’estate, genetliaci. O forse in fondo alla sua camera da letto, nel comò panciuto, c’è un cassetto dove sono piegati i loro abiti primaverili; abiti bianchi che si mettevano per la prima volta a Pasqua, abiti di tulle sbuffanti che dovevano
servire per un’estate (ma era impossibile aspettare l’estate). Quella è una sorte veramente felice: vivere nelle stanze silenziose di una casa ereditata, in mezzo a cose stabili e tranquille, sentire fuori le prime cinciallegre che si cercano nel giardino verde e luminoso, e lontano l’orologio del villaggio. Stare seduti e vedere una lunga striscia di sole meridiano, e sapere tutto delle ragazze di un tempo, ed essere un poeta. E pensare che anch’io sarei diventato un poeta così se avessi potuto abitare qua o là, in una delle tante case di campagna ormai chiuse e di cui nessuno si cura. Avrei adoperato solo una camera (la camera piena di luce, nel solaio). Là sarei vissuto con le vecchie cose, i ritratti di famiglia, i libri. E avrei avuto una poltrona a fiori, e cani, e un robusto bastone per i sentieri pietrosi. E null’altro. Solo un libro legato in cuoio giallo avorio con un vecchio frontespizio a fiori: e avrei scritto in quel libro. Molto avrei scritto, perché avrei avuto molti pensieri e ricordi di molte fanciulle.
(…)

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