dipinto di Kenne gregoire
da “Malte Laurids Brigge” – Rainer Maria Rilke
Bibliothèque Nationale
(…)
Chi sono queste
persone? Che vogliono da me? Mi aspettano? E da che cosa mi riconoscono? È
vero, la mia barba è trascurata e ricorda un poco, ma pochissimo, le loro
vecchie barbe malate, quelle barbe pallide che mi hanno sempre fatto ribrezzo.
Ma non ho forse il diritto di trascurare la mia barba? Tante persone molto occupate
lo fanno, e a nessuno viene in mente per questo di annoverarle tra i rifiuti.
Perché è chiaro che essi sono rifiuti, non solo mendicanti; anzi non sono
mendicanti, bisogna distinguere. Sono relitti, bucce di uomini, che la sorte ha
sputato. Umidi di questa saliva della sorte strisciano su un muro, su un
lampione, su un’edicola, o traversano lentamente la strada lasciandosi dietro un’oscura
traccia di sporcizia. Che mai voleva da me quella vecchia venuta fuori da non
so quale buco con in mano il cassetto del suo comodino dove rotolavano aghi e
bottoni? Perché continuava a venirmi dietro e mi guardava come se volesse
riconoscermi, con i suoi occhi cisposi dove pareva che un malato avesse sputato
fra le palpebre sanguinolenti la sua saliva verdastra? E perché quell’altra
piccola donna grigia rimase per un quarto d’ora ferma al mio fianco davanti a
una vetrina mostrandomi una lunga e vecchia matita che pendeva lentamente dalle
sue mani chiuse e cattive? Io feci finta di guardare gli oggetti esposti e di
non notare nulla. Ma lei sapeva che l’avevo vista, che indugiavo a pensare che cosa
realmente facesse. Perché sentivo bene che non si trattava della matita,
sentivo che quello era un segno, un segno per iniziati, un segno che conoscono
i rifiuti; sapevo che con quel segno mi si diceva di fare qualcosa o di andare
in qualche posto. E il più strano fu che non riuscii mai a liberarmi
dall’impressione che esistesse in realtà un linguaggio segreto a cui quel segno
apparteneva, e che quella scena fosse qualcosa che avrei dovuto aspettarmi.
(…)
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