da “Fuochi” - Marguerite
Yourcenar
Fedra o della
disperazione
Fa tutto, Fedra.
Lascia sua madre al toro, sua sorella alla solitudine: queste forme d’amore non
l’interessano. Abbandona il suo paese come si rinunzia ai sogni; rinnega la
famiglia come ci si sbarazza dei ricordi. Fra gente per cui l’innocenza è un
crimine, contempla disgustata quello che lei stessa prima o poi diventerà. Il
suo destino le fa orrore, visto dall’esterno: non lo conosce ancora se non in
forma d’iscrizione sul muro del Labirinto: è con la fuga che si strappa al suo orrendo
futuro. Sposa distrattamente Teseo, come santa Maria Egiziaca pagava con il
proprio corpo il prezzo del pedaggio. Lascia che sprofondino a ovest in una nebbia
di favola i giganteschi macelli di quella certa sua America cretese. Sbarca, impregnata
dell’odore del ranch e dei veleni di Haiti, senza il sospetto di portare con sé
la lebbra contratta sotto un torrido tropico del cuore. Il suo stupore alla vista
di Ippolito è quello di una viaggiatrice che si accorga di aver percorso inavvertitamente
il cammino all’indietro: il profilo di quell’adolescente le ricorda Cnosso e la
scure a doppio taglio. Lei lo odia, lei lo alleva; è contro di lei che lui cresce,
respinto dal suo odio, uso da sempre a diffidare delle donne, costretto fin dal
collegio, fin dalle vacanze di Capodanno a saltare tutti gli ostacoli che gli frappone
l’ostilità di una matrigna. Lei è gelosa delle sue frecce, ossia delle sue vittime;
dei suoi compagni, ossia della sua solitudine. In quella foresta vergine che è
il luogo d’Ippolito, lei rizza suo malgrado i pali indicatori del palazzo di
Minosse: traccia in mezzo a quella sterpaglia la strada a senso unico della
Fatalità. Crea Ippolito, momento per momento; è proprio un incesto il suo
amore; non può uccidere quel ragazzo senza una specie d’infanticidio. Gli
fabbrica la bellezza, la castità, le debolezze; le estrae dalle profondità di
se stessa; di lui isola quella detestabile purezza per poterlo odiare sotto le
smorte sembianze di una vergine: e plasma da cima a fondo l’inesistente Aricia.
Si inebria del gusto dell’impossibile, l’unico alcool su cui immancabilmente si
basino tutte le misture dell’infelicità. Nel letto di Teseo gusta l’amaro
piacere d’ingannare nella realtà colui che ama e nell’immaginazione colui che
non ama. È madre: ha figli come se avesse rimorsi. Fra le sue umide lenzuola di
febbricitante si consola con bisbigli di confessione risalenti alle confidenze
infantili balbettate nel collo della nutrice; succhia la mammella del dolore;
alla fine diventa la miserevole serva di Fedra. Dinanzi alla freddezza
d’Ippolito imita il sole quando urta un cristallo: si trasforma in spettro. Non
abita più il suo corpo se non come il suo stesso inferno. Ricostruisce al fondo
di sé un Labirinto in cui non può che ritrovarsi: il filo d’Arianna non le
permette più di uscirne, dal momento che se lo avvolge intorno al cuore.
Diventa vedova, finalmente può piangere senza che gliene chiedano il perché; ma
il nero non giova a quel viso cupo: accusa il suo lutto di illudere sul suo
dolore. Sbarazzata di Teseo, porta la sua speranza come una vergognosa
gravidanza postuma. Si dà alla politica per distrarsi da se stessa: accetta la
Reggenza quasi cominciasse a sferruzzarsi uno scialle. Il ritorno di Teseo
avviene troppo tardi per ricondurla nel mondo delle formule in cui quell’uomo
di Stato si rannicchia; lei non riesce a rientrarvi che di sbieco, con un
sotterfugio; e s’inventa gioia per gioia lo stupro di cui accusa Ippolito, così
che la menzogna le diventa appagamento. Dice la verità: ha subito l’estremo
oltraggio; la sua impostura è una traduzione. Prende il veleno, poiché contro
se stessa è mitridatizzata; la scomparsa d’Ippolito le fa il vuoto intorno; aspirata
da quel vuoto, s’inabissa nella morte. Prima di morire si confessa, per avere
un’ultima volta il piacere di parlare del suo delitto. Senza mutare luogo raggiunge
il palazzo avito dove la colpa è innocenza. Spinta dalla folla degli antenati
scivola lungo quei corridoi da metropolitana pieni di un odore di bestia, dove
i remi fendono l’acqua grassa dello Stige, dove i binari lucidi non propongono
che il suicidio o la partenza. Al fondo dei cunicoli da miniera della sua Creta
sotterranea finirà pure per incontrare il giovane uomo sfigurato dai suoi morsi
di belva, dal momento che per raggiungerlo si trova a disposizione tutti i circuiti
dell’eternità. Non lo ha rivisto dopo la scena madre del terzo atto; è per causa
di lui che lei è morta; è per causa di lei che lui non ha vissuto; lui non le
deve che la morte; lei gli deve i soprassalti di un’inestinguibile agonia. Ha
il diritto, lei, di addossargli il proprio crimine, la propria immortalità
sospetta sulle labbra dei poeti che di lei si serviranno per esprimere le loro
aspirazioni all’incesto, come il guidatore che giace sulla strada, con il
cranio fracassato, può accusare l’albero contro cui è andato a cozzare. Come
ogni vittima, è stato lui il suo boia. Parole definitive potranno finalmente
uscire dalle sue labbra che la speranza non fa più tremare. Che cosa dirà?
Indubbiamente grazie.
Traduzione di Maria
Luisa Spaziani
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