Il 29 aprile il temporale lavò Mosca, l’aria s’addolcì,
l’anima si fece più tenera e venne voglia di vivere.
Col mio nuovo vestito grigio e un paltò abbastanza decente
camminavo per una delle vie centrali della capitale, diretto in un luogo dove
non ero ancora mai stato. La ragione del mio spostamento era una lettera che
avevo in tasca - una lettera che mi era arrivata improvvisamente. Diceva:
Stimatissimo Sergej Leont’evič,
Ho estremo desiderio di fare la sua conoscenza, nonché di
parlarle di una faccenda segreta che forse non sarà del tutto priva d’interesse
per lei.
Se lei fosse libero, sarei felice d’incontrarla alla sede
della Scena-Studio del Teatro Indipendente mercoledì alle quattro.
Con i migliori saluti,
K. Il’čin
La lettera era scritta a matita su un foglio e nell’angolo
sinistro c’era la seguente intestazione:
Ksaverij Borisovič Il’čin
regista della Scena-Studio
del Teatro Indipendente
Era la prima volta che vedevo il nome di Il’čin, non sapevo
che esistesse una Scena-Studio. Avevo sentito parlare del Teatro Indipendente,
sapevo che era un teatro importantissimo, ma non c’ero mai stato.
La lettera mi interessò moltissimo, tanto più che a
quell’epoca non ricevevo mai lettere. Devo aggiungere che sono un modesto
collaboratore del giornale La
navigazione. Allora vivevo in una stanza brutta ma
indipendente, al settimo piano, nel quartiere Krasnye Vorota, al vicolo
Chomutovskij.
E così, camminavo, respirando l’aria rinfrescata e pensavo che
sarebbe di nuovo scoppiato il temporale, e mi chiedevo anche in che maniera
Ksaverij Il’čin fosse venuto a sapere della mia esistenza, come avesse fatto a
scovarmi e cosa potesse volere da me. Ma per quanto mi scervellassi non
riuscivo a spiegarmi quest’ultima cosa, e, alla fine, arrivai alla conclusione
che Il’čin volesse scambiare la stanza con me.
Naturalmente, sarebbe stato giusto scrivere a Il’čin di venire
da me, dato che era lui ad aver bisogno di me, ma devo confessare che mi
vergognavo della mia stanza, dei mobili e dei vicini. Sono un uomo tutto
sommato strano e ho un po’ paura della gente. Immaginate la scena: entra Il’čin
e vede il divano con la fodera strappata e la molla che sporge, la lampada
sopra il tavolo col paralume di carta di giornale, il gatto che va avanti e
indietro, mentre dalla cucina arrivano le parolacce di Annuška.
Entrai nel portone di ghisa lavorata, vidi una piccola
bottega, dove un uomo canuto vendeva distintivi e montature d’occhiali. Saltai
un rigagnolo d’acqua torbida e mi trovai davanti a un edificio giallo, e pensai
che quell’edificio doveva essere stato costruito molto, molto tempo prima,
quando né io né Il’čin eravamo ancora al mondo. Una targa nera a lettere dorate
indicava che quella era la sede della Scena- Studio. Entrai e immediatamente mi
sbarrò la strada un uomo di bassa statura, con barbetta e con casacca dagli
alamari verdi.
«Cerca qualcuno signore?», mi chiese sospettoso e allargò le
braccia come se volesse acchiappare una gallina.
«Devo vedere il regista Il’čin», dissi, sforzandomi di dare
alla mia voce un tono altezzoso.
L’uomo cambiò subito atteggiamento, proprio sotto i miei
occhi: lasciò cadere le braccia lungo i fianchi, e s’irrigidì e mi fece un
sorriso falso.
«Ksaverij Borisovič? Sì, subito. Il paltò, prego. Non ha
galosce?» L’uomo prese il mio paltò con una cura tale, che sembrava trattarsi
di un prezioso paramento sacro.
Mentre salivo la scala di ghisa, vidi su dei bassorilievi
profili di guerrieri con elmi e minacciose spade, e antiche stufe olandesi con
gli sfiatatoi lustrati fino a brillare come oro. L’edificio era silenzioso, non
c’era nessuno, solo l’uomo con gli alamari mi veniva dietro e, voltandomi,
vedevo che mi rivolgeva segni di attenzione, di deferenza, di stima, di amore e
di gioia per il fatto che ero venuto e che lui anche se mi camminava dietro, mi
guidava, mi portava là dove si trovava il solitario, enigmatico Ksaverij
Borisovič Il’čin.
(…)
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