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11 novembre 2018

da “Il figlio maschio” - Giuseppina Torregrossa

Pietro Marussig - Donne al caffè, 1924
da “Il figlio maschio” - Giuseppina Torregrossa

La mattina dopo si erano risentite al telefono e da quel momento avevano preso l’abitudine di incontrarsi quasi ogni giorno. Giusy andava a trovarla il pomeriggio, ma prima si fermava al bar sotto i portici di corso Sicilia. Prendeva posto al tavolo più interno, costringendo i suoi larghi fianchi dentro alle poltroncine, i cui braccioli rigidi sprofondavano tra i rotoli della sua carne soda. Alzava la mano con un gesto imperioso, l’ampia camicia dalle maniche a pipistrello svolazzava nel vento. Ordinava al cameriere sempre la stessa cosa: granita e brioscia. Nell’attesa osservava la porta della libreria e prendeva nota dei clienti che entravano, ne osservava i vestiti, le pettinature. Quanto le piaceva spettegolare. Gustava poi la brioscia cominciando dal tuppo che spalmava di panna, prima di poggiarlo sulla lingua. La sua bocca si spalancava per non sprecare neanche una goccia di quell’adorato dolce. Di granita in granita Giusy aveva accumulato un po’ di chili. Timballi, sformati, spiedini, spongati le avevano ridefinito la silhouette, fino a farla assomigliare a un gigantesco, mansueto pesce, una manta di cui aveva anche mutuato le movenze. Giusy avanzava sospinta da una forza interna che nasceva nel suo torace potente, le braccia erano pinne di direzione, le gambe una coda flessuosa, il suo vestito di seta si gonfiava nel vento mentre attraversava i portici e si chiudeva come un paracadute floscio nell’ingresso della libreria. Adalgisa la accoglieva felice. Quella nuova amica, generosa e spontanea, era un dono della vita.
«Come stai?» chiedeva Giusy, avvolgendola con le sue braccia ampie. Adalgisa affondava volentieri nel suo corpo abbondante. La tenerezza, più che la passione, da che era morto Vito era diventata per lei un bisogno primario.
«Oh, che capelli s’è fatta Mariolina Fontana, pare che qualcuno le abbia ruttato in testa!»
«Che malalingua che sei!» Adalgisa fingeva di rimproverarla, ma pure a lei piaceva spettegolare. «Però è vero. Ha cambiato parrucchiere. Dice che Marco la faceva “quadro antico” e se ne è andata da uno lussuosissimo che sta alla via Etnea, Renè, roba da ricchi!»
«Sì, vabbe’. Quello faceva il meccanico a Torino prima di tornarsene a Catania a fare il parrucchiere.»
«E si vede!»
Botta e risposta, finivano per contare le pulci a tutta la città.
«Lo sai che la professoressa Giuffrida aspetta due gemelli?»
«Ma non s’era lasciata con il marito?»
«Ora ha un compagno nuovo.»
«E non è che può essere sempre colpa delle femmine quando i figli non arrivano.»
«Giusto. La Milazzo invece ancora niente, mischinedda.»
«O troppo a sicco o troppo a sacco!»
Spesso ridevano per nulla, bastava uno sguardo, una smorfia e i loro visi si atteggiavano a un’ilarità appena contenuta. La manta, del resto, è un animale incline all’allegria.
Non è che a Giusy i dolori fossero mancati. Aveva perso un figlio di diciannove anni per una leucemia. Quando era successa la disgrazia, a lei era sembrato di impazzire.
«Come ci si consola da una perdita così?» aveva chiesto una volta Adalgisa, stupita dalla sua serenità.
«Non sono così tranquilla di natura. È che io Giuseppe ce l’ho sempre accanto, ci parlo, lui mi risponde. Quel ragazzo non mi ha mai abbandonato, è qui con me e mi sostiene. Perciò sono felice: so per certo che non si svanisce nel nulla dopo la morte.»
«Anche Vito sta sempre al mio fianco» aveva confessato l’altra. «Però la cosa non mi rallegra, anzi sento ancora di più la sua mancanza. Del resto, se ami hai bisogno della presenza dell’amato.»
Giusy aveva sorriso comprensiva senza aggiungere altro. La vedova dagli occhi grandi era appena all’inizio del suo percorso, toccava a lei aiutarla.
«Come fai a parlargli?»
«Lui detta e io scrivo. E tu con Vito?»
«Lo sogno ogni notte e sembra vivo.»
«Magari ci fai anche l’amore» aveva scherzato Giusy, e l’altra era arrossita. «Ho colto nel segno, eh?»
«Come ti accorgi che Giuseppe ti vuole parlare?» La curiosità di Adalgisa non era mai paga.
«Mi afferra un tremolizzo al braccio destro, e comincio a riempire fogli su fogli. Le parole le vedo come immerse in una pozza d’acqua trasparente e non riesco a distinguerle l’una dall’altra. Poi compare un cono d’ombra al centro della mia testa, le sillabe risuonano una per una, come note su un pentagramma. I segni diventano frasi, periodi, discorsi che io trascrivo senza capire. Solo quando rileggo, allora il senso mi diventa chiaro.»
«E cosa vi dite?»

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