Pietro Marussig - Donne al caffè, 1924
da “Il
figlio maschio” - Giuseppina Torregrossa
La
mattina dopo si erano risentite al telefono e da quel momento avevano preso
l’abitudine di incontrarsi quasi ogni giorno. Giusy andava a trovarla il
pomeriggio, ma prima si fermava al bar sotto i portici di corso Sicilia.
Prendeva posto al tavolo più interno, costringendo i suoi larghi fianchi dentro
alle poltroncine, i cui braccioli rigidi sprofondavano tra i rotoli della sua
carne soda. Alzava la mano con un gesto imperioso, l’ampia camicia dalle
maniche a pipistrello svolazzava nel vento. Ordinava al cameriere sempre la
stessa cosa: granita e brioscia. Nell’attesa osservava la porta della libreria
e prendeva nota dei clienti che entravano, ne osservava i vestiti, le
pettinature. Quanto le piaceva spettegolare. Gustava poi la brioscia
cominciando dal tuppo che spalmava di panna, prima di poggiarlo sulla lingua.
La sua bocca si spalancava per non sprecare neanche una goccia di quell’adorato
dolce. Di granita in granita Giusy aveva accumulato un po’ di chili. Timballi,
sformati, spiedini, spongati le avevano ridefinito la silhouette, fino a farla
assomigliare a un gigantesco, mansueto pesce, una manta di cui aveva anche
mutuato le movenze. Giusy avanzava sospinta da una forza interna che nasceva
nel suo torace potente, le braccia erano pinne di direzione, le gambe una coda
flessuosa, il suo vestito di seta si gonfiava nel vento mentre attraversava i
portici e si chiudeva come un paracadute floscio nell’ingresso della libreria. Adalgisa
la accoglieva felice. Quella nuova amica, generosa e spontanea, era un dono
della vita.
«Come
stai?» chiedeva Giusy, avvolgendola con le sue braccia ampie. Adalgisa
affondava volentieri nel suo corpo abbondante. La tenerezza, più che la
passione, da che era morto Vito era diventata per lei un bisogno primario.
«Oh, che
capelli s’è fatta Mariolina Fontana, pare che qualcuno le abbia ruttato in testa!»
«Che
malalingua che sei!» Adalgisa fingeva di rimproverarla, ma pure a lei piaceva
spettegolare. «Però è vero. Ha cambiato parrucchiere. Dice che Marco la faceva
“quadro antico” e se ne è andata da uno lussuosissimo che sta alla via Etnea,
Renè, roba da ricchi!»
«Sì,
vabbe’. Quello faceva il meccanico a Torino prima di tornarsene a Catania a
fare il parrucchiere.»
«E si
vede!»
Botta e
risposta, finivano per contare le pulci a tutta la città.
«Lo sai
che la professoressa Giuffrida aspetta due gemelli?»
«Ma non
s’era lasciata con il marito?»
«Ora ha
un compagno nuovo.»
«E non è
che può essere sempre colpa delle femmine quando i figli non arrivano.»
«Giusto.
La Milazzo invece ancora niente, mischinedda.»
«O troppo
a sicco o troppo a sacco!»
Spesso
ridevano per nulla, bastava uno sguardo, una smorfia e i loro visi si
atteggiavano a un’ilarità appena contenuta. La manta, del resto, è un animale
incline all’allegria.
Non è che
a Giusy i dolori fossero mancati. Aveva perso un figlio di diciannove anni per
una leucemia. Quando era successa la disgrazia, a lei era sembrato di
impazzire.
«Come ci
si consola da una perdita così?» aveva chiesto una volta Adalgisa, stupita
dalla sua serenità.
«Non sono
così tranquilla di natura. È che io Giuseppe ce l’ho sempre accanto, ci parlo,
lui mi risponde. Quel ragazzo non mi ha mai abbandonato, è qui con me e mi
sostiene. Perciò sono felice: so per certo che non si svanisce nel nulla dopo
la morte.»
«Anche
Vito sta sempre al mio fianco» aveva confessato l’altra. «Però la cosa non mi
rallegra, anzi sento ancora di più la sua mancanza. Del resto, se ami hai
bisogno della presenza dell’amato.»
Giusy
aveva sorriso comprensiva senza aggiungere altro. La vedova dagli occhi grandi
era appena all’inizio del suo percorso, toccava a lei aiutarla.
«Come fai
a parlargli?»
«Lui
detta e io scrivo. E tu con Vito?»
«Lo sogno
ogni notte e sembra vivo.»
«Magari
ci fai anche l’amore» aveva scherzato Giusy, e l’altra era arrossita. «Ho colto
nel segno, eh?»
«Come ti
accorgi che Giuseppe ti vuole parlare?» La curiosità di Adalgisa non era mai
paga.
«Mi
afferra un tremolizzo al braccio destro, e comincio a riempire fogli su fogli.
Le parole le vedo come immerse in una pozza d’acqua trasparente e non riesco a
distinguerle l’una dall’altra. Poi compare un cono d’ombra al centro della mia
testa, le sillabe risuonano una per una, come note su un pentagramma. I segni
diventano frasi, periodi, discorsi che io trascrivo senza capire. Solo quando
rileggo, allora il senso mi diventa chiaro.»
«E cosa
vi dite?»
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