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3 febbraio 2019

Le città invisibili – Italo Calvino

dipinto di Fernando de Szyszlo
Le città invisibili – Italo Calvino
Le città e i morti. 2.
Mai nei miei viaggi m’ero spinto fino a Adelma. Era l’imbrunire quando vi sbarcai. Sulla banchina il marinaio che prese al volo la cima e la legò alla bitta somigliava a uno che era stato soldato con me, ed era morto. Era l’ora del mercato del pesce all’ingrosso. Un vecchio caricava una cesta di ricci su un carretto; credetti di riconoscerlo; quando mi voltai era sparito in un vicolo, ma avevo capito che somigliava a un pescatore che, già vecchio quando io ero bambino, non poteva più essere tra i vivi. Mi turbò la vista d’un malato di febbri rannicchiato per terra con una coperta sulla testa: mio padre pochi giorni prima di morire aveva gli occhi gialli e la barba ispida come lui tal quale. Girai lo sguardo; non osavo fissare più nessuno in viso.
Pensai: “Se Adelma è una città che vedo in sogno, do- ve non s’incontrano che morti, il sogno mi fa paura. Se Adelma è una città vera, abitata da vivi, basterà continuare a fissarli perché le somiglianze si dissolvano e appaiano facce estranee, apportatrici d’angoscia. In un caso o nell’altro è meglio che non insista a guardarli”.
Un’erbivendola pesava una verza sulla stadera e la metteva in un paniere appeso a una cordicella che una ragazza calava da un balcone. La ragazza era uguale a una del mio paese che era impazzita d’amore e s’era uccisa. L’erbivendola alzò il viso: era mia nonna.
Pensai: “Si arriva a un momento nella vita in cui tra la gente che si è conosciuta i morti sono più dei vivi. E la mente si rifiuta d’accettare altre fisionomie, altre espressioni: su tutte le facce nuove che incontra, imprime i vecchi calchi, per ognuna trova la maschera che s’adatta di più”.
Gli scaricatori salivano le scale in fila, curvi sotto damigiane e barili; le facce erano nascoste da cappucci di sacco; “Ora si tirano su e li riconosco”, pensavo, con impazienza e con paura. Ma non staccavo gli occhi da loro; per poco che girassi lo sguardo sulla folla che gremiva quelle straducole, mi vedevo assalito da facce inaspettate, riapparse da lontano, che mi fissavano come per farsi riconoscere, come per riconoscermi, come se mi avessero riconosciuto. Forse anch’io assomigliavo per ognuno di loro a qualcuno che era morto. Ero appena arrivato ad Adelma e già ero uno di loro, ero passato dalla loro parte, confuso in quel fluttuare d’occhi, di rughe, di smorfie.
Pensai: “Forse Adelma è la città cui si arriva morendo e in cui ognuno ritrova le persone che ha conosciuto. È segno che sono morto anch’io”. Pensai anche: “È segno che l’aldilà non è felice”.

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