Piace il vino a San
Calò
Nel 1946, durante la
prima domenica di settembre - la festa di San Calogero cadeva sempre quel giorno
- per poco a S.E. Rev.ma Rufino mons. Luigi non era venuto un sintòmo, una
sincope. Sbattuto da appena un mese ad Agrigento dalla natia Alessandria (pare
che il suo cuore paterno avesse un po' troppo palpitato d'affetto per le
Brigate nere durante la repubblica di Salò: questa, dicevano le malelingue, la
ragione del suo trasferimento), aveva ricevuto una vera e propria botta in testa
all'assistere alla festa.
«Ma questo è un rito
pagano!» aveva a un certo momento gridato al parroco che si era sentito aggelare.
Sinceramente, però,
non gli si poteva dare torto.
Appena spalancata la
porta della chiesa, mentre scoppiavano i mortaretti - una maschiàta sapientemente condita
con residuati bellici - la vara del Santo era stata messa in bilico sul primo
dei dodici scaloni davanti al portale da venti scaricatori portuali e quindi,
con una concorde spinta, fatta scivolare giù fino alla piazza dove, a bloccare
il Santo, c'erano altri venti scaricatori, tutti a piedi nudi, i fazzoletti
variopinti annodati darrè la nuca, le camicie sbottonate fino al bellico,
un'ampia fascia colorata a reggere i pantaloni bianchi.
Alla comparsa del
Santo un urlo si era levato dalla folla: «E chi fìcimu? Nu scurdamu? Ebbiva San
Calò!» che alle orecchie di S.E. dovette suonare terrorizzante nel suo furore e
nella sua incomprensibilità come il grido di guerra dei musulmani ai crociati.
Quindi quinnici
tamburinari scelti, vestiti alla stessa manèra degli scaricatori, attaccarono
di gran gana coi loro strumenti, un suono ritmico e pressante, stordente,
eccitante, che solo in mezzo all'Africa, forse, se ne poteva sentire uno
uguale.
Intanto, torno torno
alla vara del Santo ferma sulla piazza, principiarono brevi ma furibonde azzuffatine.
Erano dovuti correre i carrabinera a fare ordine. Si erano formati così diversi
gruppi familiari che, aspettando di montare sulla vara, si scambiavano male
occhiate e gastìme di terribili malatìe. Una volta raggiunto il posto
desiderato, i gruppi si mettevano in posa, i bambini accucciati ai piedi della
statua del Santo, il capofamiglia di fianco, un braccio amichevolmente passato
sulle spalle di San Calò, la mogliere con la borsetta tra le mani all'altro
fianco. Mentre il fotografo col treppiedi scattava, i membri della famiglia
ritrattata domandavano la grazia e dicevano all'orecchio del Santo la prumissa:
ma questi non se ne dava conto, gli occhi sul libro rilegato rosso che teneva aperto
nella destra, la mano mancina stretta attorno a un nodoso bastone, la testa non
alzava mai, non dava confidenza.
Finite le fotografie,
i portatori avevano sollevato senza sforzo la pesantissima vara e, caricatasela
sulle spalle, avevano pigliato il fujuto. Il Santo sempre di prescia caminava,
sempre tante cose da fare aveva. Avanti si erano messi i preti, le tonache al
vento, obbligati a tenere quel passo di bersagliere, dietro venivano i
tamburinari scatenati e dietro ancora i fedeli. Dai balconi parati con coperte
ricamate pioveva giù il pane tagliato a fette, una foresta di mani - i poveri
accorrevano a centinara dai paesi vicini -nasceva e scompariva ad ogni gettata,
una vociata di ringraziamenti rintronava.
Ogni tanto un suono
di campanella avvertiva i portatori che c'era da ricevere un'offerta
particolare, il Santo si fermava a malappena, data la rincorsa gli scaricatori
facevano come i cavalli in discesa, il corpo indietro e le gambe in avanti,
sulla strada scendeva il graziato e appuntava la prumissa in biglietti di banca
ai lunghi nastri rossi e azzurri che pendevano dalle braccia della statua.
Quando i nastri erano tutti pieni come la carta moschicida in un palmento, uno
del comitato prendeva un sacco e vi stipava dintra i soldi. I proprietari delle
taverne erano tenuti a non chiudere bottega - una volta che Pietro Savio ci
aveva tentato, con le aste della vara a catapulta gli avevano fatto saltare la
porta -se i portatori si decidevano a fermarsi, toccava a loro vino a volontà,
gratis, e un bicchiere spettava di diritto al Santo: dopo tre o quattro
fermate, a forza di spalmargli gocce di vino sulle labbra finiva che dalla
bocca di San Calogero cominciava a colare un filo rosso. Col vino che gli niscìva
dalla bocca e il passo barcollante dei portatori, verso le cinque del
dopopranzo cominciava a parere un ubriaco che non reggesse il carico.
A volte uno della
folla, ispirato, faceva voci che il Santo sentiva caldo, non vedevano che
sudava tutto? Bisognava allora asciugarlo: si fermavano, calavano a terra la
vara, tiravano fora un fazzolettone, glielo passavano sulla faccia.
Quel giorno S.E. si
accorse, con orrore, che uno dei portatori, il più acceso di fede, stava
asciugando il Santo con un gatto vivo, un gatto che soffiava e graffiava.
Intanto, mentre la
processione lasciava le vie del centro per andare nei vicoli di periferia, dopo
ore e ore di faticata il Santo principiava a fare le sue spettacolose acrobazie
per entrare in certe stradette strettissime, si metteva di traverso, di tre
quarti, sottosopra, ma sempre finiva per passare dove c'era qualche malato che
ne aspettava con ansia l'arrivata. E via via che la vara penetrava nelle strade
dei più poveri s'appesantiva di grappoli di picciliddri, sordomuti, rognosi,
sciancati, con gli occhi pisciati, con la guallara, tutti picciliddri malati
che il Santo miracoloso voleva allato a lui lungo quelle vie di fame, di
dolore, di pena.
Ma le forti
sofferenze di S.E. erano destinate, verso sera, ad aumentare. Un reparto di
soldati negri, che gli americani avevano lasciato di guardia a non si sa che
cosa, vide passare la processione. Un Santo con lo stesso colore della loro
pelle - San Calò era africano - li fece nèsciri pazzi di colpo. Tre tirarono
fora il mitra e principiarono a correre davanti a tutti sparando in aria, uno
pigliò a sonare la tromba che pareva Armstrong, quattro o cinque
s'impadronirono dei tamburi e si misero a fare fantasia, i rimanenti del
reparto domandarono di portare la vara dietro pagamento di buona moneta degli
Stati. Quando i portatori, momentaneamente liberi, s'affollarono attorno a S.E.
acclamandolo, questi vide, ammammaloccuto, che tutti indistintamente portavano
appunto sulla cammisa oramai grigia di sudore, il distintivo del Pci. Poi ci fu
lo scandalo finale.
Al tramonto, al
momento di rientrare in chiesa per la sulenne cerimonia finale, S.E., che
aspettava in piedi davanti alla porta, vide con stupore la processione fare di
colpo dietrofront e sparire darrè l'angolo. Il parroco, che sotto le taliàte di
S.E. invecchiava a vista, gli spiegò che evidentemente il Santo non se la
sentiva ancora di tornare in chiesa, gli era forse venuto desiderio di fare un
altro giretto. S.E., fuori dalla grazia di Dio, si mise a chiamare con tutto il
fiato i carrabinera e questi ultimi, più con le cattive che con le buone, riuscirono
a persuadere il Santo a trasìre in chiesa.
Il giorno appresso
S.E. Rev.ma fece sapere che, in occasione della festa dell'anno a venire, i comunisti
non avrebbero più potuto portare la vara, che il pane non doveva essere buttato
dai balconi, che i picciliddri malati non dovevano più acchianare sulla vara,
che la processione non corresse ma procedesse con passo lento, che nessuno
offrisse più da bere al Santo (pena la scomunica dell'intero paìsi) e per
ultimo, punto al quale S.E. teneva particolarmente, il Santo doveva, tra una
festa e l'altra, starsene in chiesa come facevano tutti gli altri santi. Eh, già;
San Calogero, in effetti, aveva sempre abitato.. nella Casa dei Lavoratori
portuali: durante il fascismo, tra i ritratti di Mussolini e del Re, dopo la
Liberazione tra quelli di Lenin, Stalin e Giuseppe Di Vittorio. Veniva portato
in chiesa solo il giorno prima della festa.
Dopo lunghissime
trattative si raggiunse un compromesso. Il Santo, prima di essere fatto
scivolare sui gradini, veniva dai preti, che non avrebbero partecipato alla
processione, declassato a comune mortale e per questo gli veniva levata la
spera che gli aureolava la testa. In quanto uomo, poteva fare quello che
voleva: farsi tirare il pane, correre, carricarsi i picciliddri sulle spalle,
andare taverne taverne con gli amiciuzzi suoi. Venne fabbricato macari un altro
santo, identico al primo. Quello vero stava nella Casa del Lavoratore, quello
finto in chiesa: ma in processione si portava quello vero.
La processione
religiosa, quella riconosciuta dalle autorità ecclesiastiche, sarebbe invece
avvenuta la sera. Lavato dal vino, rivestito a nuovo, riconsacrato e con la
spera in testa, il Santo nisciva di bel nuovo nuovamente con i preti, i devoti
serii, i canti religiosi.
Ben presto però la
voce popolare disse che di una processione tanto ammodo, lenta, composta, ordinata,
con appresso solo qualche vecchietto e le pirsone "civili" tutte
vestite a festa, San Calogero si stuffava fino alle lagrime.
E
qualcuno giurò d'averlo visto perfino sbadigliare.
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