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5 giugno 2019

da Confessioni di una maschera - Yukio Mishima

da Confessioni di una maschera - Yukio Mishima

una volta ch’ebbi compreso come stava la faccenda, cominciai a ricercare il piacere scientemente, di proposito. Vennero messi in atto i principi della selezione e dell’adattamento. Quando la composizione di un’immagine in un fascicolo d’avventure risultava manchevole, la copiavo da prima con le matite colorate, e poi la correggevo secondo il mio gusto. Allora prendeva le fattezze di un giovane artista del circo equestre che cadeva in ginocchio premendo la mano su una ferita d’arma da fuoco alla mammella; o d’un funambolo precipitato dal filo spaccandosi il cranio, che adesso giaceva a terra morente, con mezza faccia intrisa di sangue. Spesso a scuola mi angustiava talmente la paura che si potessero scoprire in mia assenza quelle truculente vignette celate a casa in fondo a un cassetto della libreria, che non udivo neppure la voce dell’insegnante. Sapevo che avrei dovuto distruggerle subito dopo averle disegnate, ma il mio giocattolo si era così affezionato che mi riusciva assolutamente impossibile attuare quel provvedimento.
In questa maniera il mio giocattolo trascorse veramente molti giorni e mesi, senza nemmeno adempiere al suo fine secondario – quello che chiamerò “la mia brutta abitudine – a tacere del suo fine principale, supremo.
Intanto vari cambiamenti avevano avuto luogo intorno a me. La famiglia si era divisa in due e, lasciata la casa in cui ero nato, si era trasferita in due case separate, ma che non distavano più di mezzo isolato nella stessa strada. in una stavano i nonni con me, nell’altra i miei genitori e i miei fratelli. Durante quel periodo mio padre fu inviato all’estero in missione ufficiale, e prima di rientrare in patria visitò parecchie nazioni d’Europa. non passò molto tempo, che già i miei genitori facevano un nuovo trasloco. Alla fine mio padre aveva preso la decisione inspiegabilmente differita di esigere ch’io ritornassi a vivere in casa sua, e approfittò del momento opportuno per attuarla. Dovetti sorbirmi una scena d’addio con la nonna – un “melodramma moderno,” com’ebbe a definirla mio padre – e così alla buon’ora andai a vivere con i miei. Questa volta mi separavano dal domicilio dei nonni parecchie stazioni della ferrovia metropolitana e della linea tranviaria municipale. Giorno e notte la nonna si stringeva al petto la mia fotografia sciogliendosi in lacrime, e un attacco isterico la coglieva istantaneamente se violavo il patto stipulato fra noi due, che mi obbligava a passare da lei una notte di ogni settimana. A dodici anni ero oggetto dell’amore di una tenera fidanzata sessantenne.
Di lì a poco mio padre fu trasferito a Osaka. Ci andò solo, il resto della famiglia rimase a Tokyo.
Un giorno approfittando di un leggero raffreddore che mi aveva impedito di andare a scuola, pescai alcuni volumi di riproduzioni d’opera d’arte che mio padre aveva riportato in patria come ricordo dei suoi viaggi in terre straniere, e rifugiatomi in stanza da letto li esaminai con grande attenzione. Mi affascinarono in special modo le fotoincisioni di sculture greche nelle guide dei vari musei italiani. Quando mi trovai davanti alle rappresentazioni del nudo, fra le molteplici riproduzioni di capolavori furono queste tavole in bianco e nero che appagarono la mia fantasia a preferenza d’ogni altra. Ciò era dovuto probabilmente al semplice fatto che, anche riprodotta, la scultura mi pareva vicina alla vita.
Era la prima volta che vedevo dei libri di quella specie.
Quel taccagno di mio padre, insofferente all’idea che mani infantili avessero a toccare e a insudiciare quelle figure, e temendo per giunta – come a torto! – ch’io potessi venir attratto dalle donne ignude dei capolavori, aveva riposto i volumi nei più profondi recessi di uno stipo. Quanto a me, non mi ero mai sognato fino a quel giorno che potessero essere più interessanti delle vignette dei giornalini da ragazzi.

Trad. Marcella Bonsanti

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