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28 giugno 2019

da Il cacciatore di aquiloni – Khaled Hosseini

da Il cacciatore di aquiloni – Khaled Hosseini

La settimana seguente mostrai al mio maestro il libro. Scorse in fretta un paio di pagine e me lo restituì con un sorrisetto di sufficienza. «Se c’è una cosa che gli sciiti sanno fare bene è passare per martiri.» E quando pronunciò la parola “sciiti” fece una smorfia, come se si trattasse di una malattia infettiva.
Nonostante Sanaubar appartenesse alla stessa etnia e addirittura alla stessa famiglia di Ali, non esitava a unirsi ai ragazzini nel dileggiare il marito.
La gente finì per sospettare che il matrimonio fosse stato combinato tra Ali e suo zio, il padre di Sanaubar, per restituire una parvenza di dignità alnome della famiglia che la ragazza aveva spudoratamente macchiato.
Ali non si vendicò mai dei suoi aguzzini, non solo perché non era in grado di acciuffarli, ma soprattutto perché era impermeabile agli insulti. Aveva trovato la gioia e un antidoto al dolore con la nascita di Hassan. Il parto era andato liscio come l’olio. Nessuna ostetrica, nessun anestesista, nessun sofisticato strumento di monitoraggio. Sanaubar, stesa su un materasso, aveva partorito con l’aiuto di Ali e di una levatrice. In realtà non aveva avuto bisogno di grande assistenza, perché sin dalla nascita Hassan aveva dato prova della sua vera natura, della sua incapacità a fare del male. Qualche grido, un paio di spinte e Hassan era venuto al mondo. Con un sorriso.
Secondo la confidenza che l’indiscreta levatrice aveva fatto alla serva di un vicino, Sanaubar aveva dato un’occhiata al neonato che Ali teneva in braccio e, visto il taglio sul labbro, era scoppiata in una risata sarcastica.
«Ecco,» aveva detto «ora hai questo idiota di figlio che sorriderà al posto tuo!» Si era rifiutata persino di prendere in braccio il piccolo. Cinque giorni dopo era sparita.
Baba aveva assunto la stessa balia che aveva allattato me. Ali ci aveva raccontato che era una donna hazara con gli occhi azzurri, originaria di Bamiyan, la città con le colossali statue dei Buddha. «Cantava con una voce dolcissima» ci diceva. Nonostante conoscessimo già la risposta, Hassan e io gli chiedevamo: «Che cosa ci cantava?». Allora Ali si schiariva la voce e iniziava:

Sulla cima di un’alta montagna
gridai il nome di Ali, Leone di Dio.
Oh, Ali, Leone di Dio, Signore degli Uomini,
rallegra i nostri cuori dolenti.


Poi ci ripeteva che c’era una fratellanza tra chi si era nutrito allo stesso seno, una parentela che neppure il tempo poteva spezzare.
Hassan e io avevamo succhiato lo stesso latte, avevamo mosso i primi passi sullo stesso prato e avevamo pronunciato le prime parole sotto lo stesso tetto. La mia fu Baba.
La sua Amir, il mio nome.
Ripensandoci ora, credo che le radici di ciò che accadde nell’inverno del 1975 – e di tutto ciò che ne seguì – affondassero già in quelle prime parole.

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