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15 giugno 2019

La nausea - Jean Paul Sartre

La nausea - Jean Paul Sartre

Per spiegare la presenza di quelle carte nella mia stanza, non sarebbe stato difficile trovare altre cento storie, tutte più credibili, e tutte, di fronte a questi foglietti grinzosi, sarebbero parse vuote e leggere come bolle di sapone. Piuttosto che contare su di esse per mettermi in comunicazione con Rollebon, avrei fatto meglio a rivolgermi allo spiritismo. Rollebon non c’era più. Assolutamente. Se di lui fosse rimasto ancora qualche osso, sarebbe esistito di per sé, in completa indipendenza, non sarebbe stato che un po’ di fosfato o di carbonato di calcio con sali e acqua.
Ho fatto un ultimo tentativo: ho ripetuto quelle parole della signora di Genlis, che mi servivano in genere per evocare il marchese: «il suo piccolo viso rugoso, pulito e nitido, tutto butterato dal vaiuolo, e sul quale era una malizia singolare che saltava agli occhi, qualsiasi sforzo egli facesse per dissimularla».
Il suo viso m’è apparso docilmente, il naso puntuto, gli occhi azzurri, il sorrìso. Potevo formare i suoi lineamenti a piacer mio, forse, ancor più facilmente di prima. Soltanto, non era ormai che un’immagine dentro di me, una finzione. Con un sospiro, mi sono abbandonato sullo schienale della sedia, con l’impressione di un vuoto intollerabile.
Suonano le quattro. È già un’ora che son qui, con le braccia penzoloni sulla mia sedia. Comincia a far buio. A parte questo, nella stanza nulla è cambiato; la carta bianca è sempre sul tavolo, accanto alla stilografica e all’inchiostro. Ma non scriverò mai più sul foglio cominciato. Non andrò più per via dei Mutilati e il viale del Fortino, in biblioteca a consultare gli archivi.
Ho voglia di alzarmi e d’uscire; di fare una cosa qualsiasi per stordirmi. Ma se alzo un dito, se non me ne sto assolutamente fermo, so benissimo cosa mi capiterà. E non voglio che mi capiti ancora. Tornerà sempre anche troppo presto. Non mi muovo: macchinalmente leggo sul foglio del blocco il brano incompiuto: «Avevano avuto cura di spargere le voci più sinistre. Evidentemente il signor di Rollebon dovette lasciarsi trarre in inganno, poiché, in data 13 settembre, scriveva al nipote di aver redatto il proprio testamento».
Il grande affare Rollebon è finito, come una grande passione. Bisognerà trovare qualche altra cosa. Qualche anno fa, a Sciangai, nell’ufficio di Mercier, uscii improvvisamente da un sogno, mi svegliai. Poi feci un altro sogno: vivevo alla corte degli Zar, in vecchi palazzi così freddi che d’inverno sopra le porte si formavano stalattiti di ghiaccio. Oggi mi sono svegliato davanti a un blocco di carta bianca. Le fiaccole, le feste glaciali, le uniformi, le belle spalle tremanti sono scomparse. Al loro posto, qualcosa resta nella stanza tiepida, qualcosa ch’io non voglio vedere.
Il signor di Rollebon era mio socio: per esistere aveva bisogno di me, e io avevo bisogno di lui per non sentire la mia esistenza. Io fornivo la materia bruta; di questa ne avevo da vendere e non sapevo che farne: l’esistenza, la mia esistenza. Lui, invece, la sua parte era di rappresentare. Mi stava di fronte e s’era impadronito della mia vita per rappresentarmi la sua. Non m’accorgevo più che esistevo; non esistevo più in me, ma in lui: era per lui che mangiavo, per lui che respiravo, ognuno dei miei movimenti trovava la sua giustificazione al dì fuori, là, di fronte a me, in lui; non vedevo più la mia mano che tracciava le parole sulla carta, e nemmeno la frase che avevo scritta - ma dietro, al di là della carta, vedevo il marchese, che aveva reclamato questo gesto e del quale questo gesto prolungava e consolidava l’esistenza. Io non ero che un mezzo di farlo vivere, lui era la mia ragion d’essere, mi aveva liberato da me stesso. Cos’avrei fatto, ora?
Soprattutto non muoversi, non muoversi... Ah! Questo movimento delle spalle, non ho potuto trattenerlo...

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