Il giardino dei Finzi Contini - Giorgio Bassani
Con Micòl, già l'ho detto, non facevo che rare conversazioncelle per telefono, durante le quali evitavamo ambedue di alludere a niente di troppo intimo. Ma alcuni giorni dopo che l'avevo attesa per oltre un'ora davanti al Tempio non seppi resistere alla tentazione di lagnarmi della sua freddezza. «Sai» dissi, «la seconda sera di Pasqua ti ho poi veduta.» «Ah sì? Eri al Tempio anche tu?» «No. Passavo da via Mazzini, ho notato la vostra macchina, ma ho preferito aspettarti fuori.» «Che idea.» «Eri molto elegante. Vuoi che ti racconti come vestivi?» «Ti credo, ti credo sulla parola. Dove stazionavi?» «Sul marciapiede di fronte, all'angolo di via Vittoria. A un certo punto ti sei messa a guardare verso di me. Di' la verità: mi hai riconosciuto?» «E dài. Perché dovrei dirti una cosa per un'altra? Ma tu, piuttosto, non capisco per qual motivo... Non potevi avanzare il piè, scusa?» «Stavo. Poi, quando mi sono reso conto che non eri sola, ho lasciato perdere.» «Bella scoperta che non ero sola! Però sei uno strano tipo. Potevi venire a salutarmi lo stesso, trovo.» «Certo, sì, ragionando. Il male è che non sempre uno riesce a ragionare. E poi, ti avrebbe fatto piacere?» «Dio mio, quante storie!» sospirò. La volta seguente che mi riuscì di parlarle, non meno di una dozzina di giorni più tardi, mi disse che era malata, con addosso un gran raffreddore e qualche linea di febbre. Che noia! Perché non andavo mai a trovarla? L'avevo proprio dimenticata.
«Sei... sei a letto?» balbettai sconcertato, sentendomi vittima di una ingiustizia enorme. «Sicuro che ci sono, e per giunta sotto le lenzuola. Confessa: ti rifiuti di venire per paura dell'influenza.» «No, no, Micòl» risposi amaramente. «Non farmi più fifone di quello che sono. Mi meravigliava soltanto che tu mi accusassi di averti dimenticata, quando invece... Non so se ti ricordi» seguitai, con la voce che mi si velava, «ma prima che tu partissi per Venezia telefonarti era facilissimo, mentre adesso, devi ammetterlo, è diventata una specie d'impresa. Lo sai che sono venuto diverse volte a casa tua, in questi giorni? Te l'hanno detto?» «Sì.» «E allora! Se volevi vedermi, sapevi benissimo dove trovarmi: la mattina nella sala del biliardo, e il pomeriggio giù da tuo fratello. La verità è che non ne avevi nessuna voglia.» «Che stupidaggini! Da Alberto non mi è mai piaciuto andarci, specie, poi, quando riceve degli amici. Quanto a venire da te la mattina, non stai lavorando? Se c'è una cosa che detesto è proprio quella di disturbare la gente quando è lì che lavora. Ad ogni modo, se davvero ci tieni, domani o dopodomani passerò un attimo a salutarti.» L'indomani mattina non venne, ma il pomeriggio, mentre mi trovavo da Alberto (saranno state le sette: Malnate si era bruscamente accomiatato da qualche minuto), entrò Perotti che portava un suo messaggio. La «signorina» avrebbe gradito che io salissi di sopra un momento - annunciò impassibile, ma, mi parve, di malumore -. Si scusava. Era ancora a letto, altrimenti sarebbe scesa giù lei. Che cosa preferivo: andare su subito, oppure rimanere a cena, e salire dopo? La signorina avrebbe preferito subito, dato che aveva un po' di mal di testa e voleva spegnere la luce molto presto. Nel caso però che decidessi di rimanere... «No, per carità» dissi, e guardavo Alberto. «Vengo immediatamente.» Mi alzai, disponendomi a seguire Perotti. «Non fare complimenti, mi raccomando» diceva intanto Alberto, accompagnandomi premuroso verso la porta. «Credo che a tavola questa sera io e il papà saremo soli. Anche la nonna è a letto con l'influenza, e la mamma non si allontana dalla sua camera nemmeno per un minuto. Dunque, se ti va di prendere qualcosa con noi, e d'andare di sopra da Micòl dopo... Il papà lo farai felice.» Risposi che non potevo, che alle nove dovevo incontrarmi «in Piazza» con un «persona», e corsi dietro a Perotti che aveva già raggiunto il fondo del corridoio. Senza scambiare una parola arrivammo in breve alla base della lunga scala elicoidale che portava in cima in cima, fino alla torretta-lucernario. L'appartamento di Micòl, lo sapevo, era quello della casa situato più in alto, solamente mezza rampa al di sotto dell'ultimo pianerottolo. Non essendomi accorto dell'ascensore, mi avviai per salire a piedi. «Va ben che Lei è giovane» sogghignò Perotti, «però centoventitré gradini sono tanti. Non vuole che pigliamo l'ascensore? Funziona, sa.» Aprì il cancello della nera gabbia esterna, quindi la porta scorrevole della cabina, infine si tirò da parte perché passassi. Varcare la soglia della cabina, che era un antidiluviano scatolone tutto lucidi legni color vino, scintillanti lastre di cristallo adorne di una M, di una F, e di una C elaboratamente intrecciate, essere preso alla gola dall'odore pungente, un po' soffocante, tra di muffa e di acqua ragia, che impregnava l'aria racchiusa in quell'angusto spazio, e avvertire d'un tratto un immotivato senso di calma, di tranquillità fatalistica, di distacco addirittura ironico, fu una cosa sola. Dove l'avevo sentito un odore del genere? mi chiedevo. Quando?
Con Micòl, già l'ho detto, non facevo che rare conversazioncelle per telefono, durante le quali evitavamo ambedue di alludere a niente di troppo intimo. Ma alcuni giorni dopo che l'avevo attesa per oltre un'ora davanti al Tempio non seppi resistere alla tentazione di lagnarmi della sua freddezza. «Sai» dissi, «la seconda sera di Pasqua ti ho poi veduta.» «Ah sì? Eri al Tempio anche tu?» «No. Passavo da via Mazzini, ho notato la vostra macchina, ma ho preferito aspettarti fuori.» «Che idea.» «Eri molto elegante. Vuoi che ti racconti come vestivi?» «Ti credo, ti credo sulla parola. Dove stazionavi?» «Sul marciapiede di fronte, all'angolo di via Vittoria. A un certo punto ti sei messa a guardare verso di me. Di' la verità: mi hai riconosciuto?» «E dài. Perché dovrei dirti una cosa per un'altra? Ma tu, piuttosto, non capisco per qual motivo... Non potevi avanzare il piè, scusa?» «Stavo. Poi, quando mi sono reso conto che non eri sola, ho lasciato perdere.» «Bella scoperta che non ero sola! Però sei uno strano tipo. Potevi venire a salutarmi lo stesso, trovo.» «Certo, sì, ragionando. Il male è che non sempre uno riesce a ragionare. E poi, ti avrebbe fatto piacere?» «Dio mio, quante storie!» sospirò. La volta seguente che mi riuscì di parlarle, non meno di una dozzina di giorni più tardi, mi disse che era malata, con addosso un gran raffreddore e qualche linea di febbre. Che noia! Perché non andavo mai a trovarla? L'avevo proprio dimenticata.
«Sei... sei a letto?» balbettai sconcertato, sentendomi vittima di una ingiustizia enorme. «Sicuro che ci sono, e per giunta sotto le lenzuola. Confessa: ti rifiuti di venire per paura dell'influenza.» «No, no, Micòl» risposi amaramente. «Non farmi più fifone di quello che sono. Mi meravigliava soltanto che tu mi accusassi di averti dimenticata, quando invece... Non so se ti ricordi» seguitai, con la voce che mi si velava, «ma prima che tu partissi per Venezia telefonarti era facilissimo, mentre adesso, devi ammetterlo, è diventata una specie d'impresa. Lo sai che sono venuto diverse volte a casa tua, in questi giorni? Te l'hanno detto?» «Sì.» «E allora! Se volevi vedermi, sapevi benissimo dove trovarmi: la mattina nella sala del biliardo, e il pomeriggio giù da tuo fratello. La verità è che non ne avevi nessuna voglia.» «Che stupidaggini! Da Alberto non mi è mai piaciuto andarci, specie, poi, quando riceve degli amici. Quanto a venire da te la mattina, non stai lavorando? Se c'è una cosa che detesto è proprio quella di disturbare la gente quando è lì che lavora. Ad ogni modo, se davvero ci tieni, domani o dopodomani passerò un attimo a salutarti.» L'indomani mattina non venne, ma il pomeriggio, mentre mi trovavo da Alberto (saranno state le sette: Malnate si era bruscamente accomiatato da qualche minuto), entrò Perotti che portava un suo messaggio. La «signorina» avrebbe gradito che io salissi di sopra un momento - annunciò impassibile, ma, mi parve, di malumore -. Si scusava. Era ancora a letto, altrimenti sarebbe scesa giù lei. Che cosa preferivo: andare su subito, oppure rimanere a cena, e salire dopo? La signorina avrebbe preferito subito, dato che aveva un po' di mal di testa e voleva spegnere la luce molto presto. Nel caso però che decidessi di rimanere... «No, per carità» dissi, e guardavo Alberto. «Vengo immediatamente.» Mi alzai, disponendomi a seguire Perotti. «Non fare complimenti, mi raccomando» diceva intanto Alberto, accompagnandomi premuroso verso la porta. «Credo che a tavola questa sera io e il papà saremo soli. Anche la nonna è a letto con l'influenza, e la mamma non si allontana dalla sua camera nemmeno per un minuto. Dunque, se ti va di prendere qualcosa con noi, e d'andare di sopra da Micòl dopo... Il papà lo farai felice.» Risposi che non potevo, che alle nove dovevo incontrarmi «in Piazza» con un «persona», e corsi dietro a Perotti che aveva già raggiunto il fondo del corridoio. Senza scambiare una parola arrivammo in breve alla base della lunga scala elicoidale che portava in cima in cima, fino alla torretta-lucernario. L'appartamento di Micòl, lo sapevo, era quello della casa situato più in alto, solamente mezza rampa al di sotto dell'ultimo pianerottolo. Non essendomi accorto dell'ascensore, mi avviai per salire a piedi. «Va ben che Lei è giovane» sogghignò Perotti, «però centoventitré gradini sono tanti. Non vuole che pigliamo l'ascensore? Funziona, sa.» Aprì il cancello della nera gabbia esterna, quindi la porta scorrevole della cabina, infine si tirò da parte perché passassi. Varcare la soglia della cabina, che era un antidiluviano scatolone tutto lucidi legni color vino, scintillanti lastre di cristallo adorne di una M, di una F, e di una C elaboratamente intrecciate, essere preso alla gola dall'odore pungente, un po' soffocante, tra di muffa e di acqua ragia, che impregnava l'aria racchiusa in quell'angusto spazio, e avvertire d'un tratto un immotivato senso di calma, di tranquillità fatalistica, di distacco addirittura ironico, fu una cosa sola. Dove l'avevo sentito un odore del genere? mi chiedevo. Quando?
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