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16 giugno 2019

La storia - Elsa Morante

La storia - Elsa Morante

In realtà, la sua emozione liberatoria, per quanto precaria, lo empiva troppo per tenersela solo per sé. Tardava a richiudere la tenda, che teneva riportata dietro le spalle addosso alla parete, come se l'arrivo di quella corrispondenza lo avesse restituito, almeno provvisoriamente, al consorzio umano. «E così, a casa vostra stanno tutti bene?» riprese una delle cognate, tanto per incoraggiarlo alla chiacchiera. «Sì. Tutti bene». «E che vi dicono, eh? Che vi dicono?» s'informò la nonna Dinda. Con una certa palpitazione nella voce, però mostrando una noncuranza sprezzante, come se la cosa non lo riguardasse, rispose: «Mi fanno gli auguri. Oggi è la mia festa».
«Aaah! Auguri! Augurii!» gli vociferarono d'intorno in coro. E a questo lui fece una faccia di malcontento, e si richiuse dietro la sua tenda di stracci. Quella stessa sera, i fratelli di Carulina riportarono la notizia certa che Napoli era stata sgombrata dalle truppe tedesche. Gli Alleati erano alle porte della città, ma intanto i Napoletani, spazientiti d'aspettare, in pochi giorni avevano provveduto da soli a ripulirla: digiuni, com'erano, zingari senza casa, vestiti di stracci, armati di latte di benzina e di vecchie sciabole e di tutto quello che trovavano, allegramente avevano sopraffatto le truppe corazzate germaniche. «Napoli ha vinto la guerra!» proclamarono Tole e Mémeco agli astanti. «E accussì», disse Carulina, «adesso sono finite tutte cose?» Nessuno ne dubitava: il percorso Napoli-Roma, per gli Angloamericani, era un salto. Per il momento, adesso, la strada per Napoli era sbarrata: di là c'era l'America, e di qua il Reich. Ma si trattava di pazientare ancora pochi giorni, una settimana al massimo, e si avrebbe via libera: «E allora ce ne torniamo tutti a casa nostra!» disse il nonno Giuseppe Primo (senza considerare che la "casa loro" non esisteva più).
L'unico non tanto sicuro era Giuseppe Secondo: a suo modo di vedere, gli Angloamericani, in quanto capitalisti, erano giovanotti viziati, che facevano le cose con comodo: «Tanto, adesso loro la vittoria ce l'hanno in tasca... Mese più mese meno... Chi glielo fa fa', a quelli, de scapicollasse a Roma. Magari a Napoli gli piace il clima, il mare azzurro... Holiday! Capace che a quelli je viè voia de svernà a Posillipo...» Ma queste battute di Giuseppe Secondo non potevano scalfire l'ottimismo dei Mille.
In quel periodo, i Mille rimediavano, non si sa da dove (pare fra l'altro che certi militari tedeschi se la rivendessero, dopo averla requisita) una gran quantità di carne di contrabbando: certe volte addirittura dei quarti di bue, che mettevano in deposito nel cesso, dove il clima era più fresco, appesi al muro con un gancio da macellaio. Trattandosi di un genere deperibile, essi ne richiedevano un prezzo così onesto, che pure Ida poteva permettersi la spesa, e godere di quel lusso insperato quasi ogni giorno della settimana.
Però Useppe, da qualche tempo, si mostrava a volte recalcitrante a mangiare la carne, e bisognava forzarlo. La colpa, si vedeva chiaramente, era dei suoi nervi, piuttosto che del suo stomaco; ma questo suo capriccio amaro, del quale lui stesso non sapeva dare spiegazione, in certi casi lo travolgeva fino all'orrore, riducendolo a vomitare e a piangere. Per fortuna, tuttavia, distratto avvedutamente da qualche giochetto o storiella improvvisata, lui presto dimenticava ogni impressione, con la sua solita spensieratezza naturale. E seguiva fiducioso l'esempio degli altri, consumando la pietanza già ieri detestata senza più nemmeno un'ombra di disgusto. Così quei pasti provvidenziali lo aiutarono a prepararsi meglio all'inverno avanzante.
Chi più di tutti si avvantaggiò dell'insolita abbondanza fu Vivaldi Carlo, il quale, venendo dal nord, era naturalmente carnivoro. Per la sua festa, insieme alle lettere, chiaramente aveva ricevuto anche dei soldi, giacché grandiosamente, quella sera stessa, cavò fuori dalla sua tasca sfilacciata un biglietto da mille lire, acquistando una quantità di sigarette e una bistecca enorme, che divorò con la sua solita voracità bambinesca. Offrì pure da bere a tutti; ma, goffo e confuso, appena pagato il vino si ritirò nella sua tenda, senza partecipare alla baldoria comune.
E nei giorni successivi, diventato cliente della nuova macelleria dei Mille, rapidamente rifiorì. Le sue membra, robuste per natura, ripresero elasticità e impeto, e la malsana pàtina grigia svanì del tutto dalla sua carnagione. Adesso più che mai, nel suo colore scuro e nei tratti marcati, somigliava a un arabo etiope nomade piuttosto che a un bolognese. Il suo labbro superiore, assai sviluppato, manifestava anche troppo, nella sua mobilità, i sentimenti taciuti dalla sua bocca silenziosa. E nei suoi occhi allungati come quelli dei cervi ritornava ogni tanto quell'ombra sognante, indifesa e sotterranea, che gli si vedeva nel ritratto. Ma gli restava impresso nel viso, come uno sfregio indelebile, quello strano marchio di corruzione brutale.
Una sola volta, in quei giorni, lo videro sorridere: e fu quando, all'affacciarsi brusco e inatteso di tre o quattro ragazzini sotto la tenda, Rossella si inarcò, gonfiandosi in quell'atteggiamento che in zoologia viene detto "terrificans", con tutti i peli fino sulla coda rigidi come spine. E digrignando i denti, emise un vero piccolo ruggito, come un felino sanguinario delle foreste tropicali.

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