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15 giugno 2019

L’isola di Arturo - Elsa Morante

L’isola di Arturo - Elsa Morante

Ci caricammo dei bagagli, coperte, ecc. e ci avviammo verso il paese, per la riviera che incominciava a sbianchirsi nell’alba. Lungo la linea di levante, un colore rosso, sotto strisce di nubi cupe, annunciava una giornata di tempo volubile. Come giungemmo alla piazza, Silvestro si diresse verso la Capitaneria, già aperta, per consegnare a un tale suo conoscente i vari oggetti avuti ieri in prestito, da restituirsi ai diversi proprietari. Egli s’incaricò pure di acquistare i biglietti per la nostra traversata, mentre io lo precedevo verso il molo.
I primi raggi del sole, interrotti e corruschi, si allungavano sul mare quasi liscio. Io pensai che fra poco avrei veduto Napoli, il continente, le città, chissà quali moltitudini! E mi prese una smania improvvisa di partire, via da quella piazza, e da quella banchina.
— Il piroscafo era già là, in attesa. E al guardarlo, io sentii tutta la stranezza della mia tramontata infanzia. Aver veduto tante volte quel battello attraccare e salpare, e mai essermi imbarcato per il viaggio! Come se quella, per me, non fosse stata una povera navicella di linea, una specie di tranvai; ma una larva scostante e inaccessibile, destinata a chi sa quali ghiacciai deserti!
Silvestro ritornava coi biglietti; e i marinai andavano disponendo la scaletta per l’imbarco. Mentre il mio balio conversava con loro, io, senza farmi vedere, trassi di tasca quel cerchietto d’oro che N. mi aveva inviato la sera prima. E di nascosto lo baciai.
A riguardarlo, d’un tratto una debolezza inebriante mi oscurò la vista. In quel momento, l’invio dell’orecchino mi si tradusse in tutti i suoi significati: d’addio, di confidenza; e di civetteria amara e meravigliosa! Così, adesso avevo saputo che era anche civetta, la mia cara innamoratella! Senza conoscersi, certo, ma lo era. Difatti, 242
quale altro saluto di donna potrebbe mai esprimere una civetteria più bella di questa sua, nella sua ignoranza? Mandarmi in ricordo non il segno d’una mia carezza, o d’un bacio; ma di un maltrattamento infame. Come a dirmi: anche i tuoi maltrattamenti, sono cose d’amore, per me.
Provai la tentazione furiosa di tornare indietro, correndo, fino alla Casa dei guaglioni. E di coricarmi accanto a lei: di dirle: «Fammi dormire un poco assieme a te. Partirò domani. Non dico che dobbiamo fare l’amore, se tu non vuoi. Ma almeno lascia ch’io ti baci qua all’orecchio, dove ti ho ferito».
Già, però, il marinaio, ai piedi della scaletta, stracciava i nostri biglietti per il controllo; già Silvestro saliva, assieme a me, la scaletta. La sirena dava il fischio della partenza.
Come fui sul sedile accanto a Silvestro, nascosi il volto sul braccio, contro lo schienale. E dissi a Silvestro: — Senti. Non mi va di vedere Procida mentre s’allontana, e si confonde, diventa come una cosa grigia... Preferisco fingere che non sia esistita. Perciò, fino al momento che non se ne vede più niente, sarà meglio ch’io non guardi là. Tu avvisami, a quel momento.
E rimasi col viso sul braccio, quasi in un malore senza nessun pensiero, finché Silvestro mi scosse con delicatezza, e mi disse:
— Arturo, su, puoi svegliarti.
Intorno alla nostra nave, la marina era tutta uniforme, sconfinata come un oceano. L’isola non si vedeva più.

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