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15 luglio 2019

da Cristo si è fermato a Eboli - Carlo Levi

da Cristo si è fermato a Eboli - Carlo Levi

Guardato da questi occhi né umani né divini, accompagnato da queste potenze misteriose, arrivavo lentamente verso il cimitero. Ma gli olivi non fanno ombra: il sole attraversa la loro frasca leggera, come un velo di tulle. Preferivo allora entrare, per il cancelletto sgangherato, nel piccolo recinto del cimitero: era il solo luogo chiuso, fresco e solitario di tutto il paese. Era anche, forse, il luogo meno triste. Seduto in terra, il biancore abbagliante delle argille scompariva, nascosto dal muro: i due cipressi ondeggiavano al vento, e tra le tombe nascevano, strani in questa terra senza fiori, dei cespugli di rose. Nel mezzo del cimitero si apriva una fossa, profonda qualche metro, con le pareti ben tagliate nella terra secca pronta per il prossimo morto. Una scaletta a pioli permetteva di entrarci e di risalire senza difficoltà. In quei giorni di calura avevo preso l’abitudine, nelle mie passeggiate al cimitero, di scendere nella fossa e di sdraiarmi nel fondo. Il terreno era asciutto e liscio, il sole non arrivava laggiù, e non lo arroventava. Non vedevo altro che un rettangolo di cielo chiaro, e qualche bianca nuvola vagante: nessun suono giungeva al mio orecchio.
In quella solitudine, in quella libertà passavo delle ore.
Quando il mio cane era stanco di rincorrere le lucertole sul muro assolato, si affacciava sull’orlo della fossa e mi guardava interrogativo, poi rotolava per la scaletta, si accucciava ai miei piedi, e non tardava ad addormentarsi.
E anch’io, ascoltando il suo respiro, finivo per lasciar cadere di mano il libro, e chiudevo gli occhi.
Ci svegliava una strana voce senza sesso, né timbro, né età, che pronunciava parole incomprensibili. Un vecchio si sporgeva dal bordo della tomba, e mi parlava attraverso le sue gengive sdentate. Lo vedevo contro il cielo, alto e un po’ curvo, con delle lunghissime braccia magre, come le ali di un mulino. Aveva quasi novant’anni, ma il suo viso era fuori del tempo, rugoso e sformato come una mela vizza: fra le pieghe della carne risecchita
brillavano due occhi chiarissimi, azzurri e magnetici.
Non un pelo di barba né di baffi gli cresceva, né gli era mai cresciuto, sul mento, e questo dava alla sua vecchia pelle un carattere bizzarro. Parlava un dialetto che non era quello di Gagliano, un miscuglio di linguaggi, perché aveva girato molti paesi, ma vi prevaleva la parlata di Pisticci, dove era nato in tempi remotissimi. Per questo, e per la mancanza dei denti che gli impastava le parole, e per il modo sentenzioso e rapido del suo discorso, dapprincipio mi riusciva oscuro: poi ci facevo l’orecchio, e si conversava a lungo. Ma non ho mai capito se egli veramente mi ascoltasse, o se seguisse soltanto il misterioso gomitolo dei suoi pensieri, che parevano uscirà dalla indeterminata antichità di un mondo animalesco. Questo essere indefinibile indossava una carnicia sudicia strappata, aperta sul petto, e anche qui non aveva peli, ma uno sterno sporgente come quello degli uccelli. Sul capo aveva un berretto rossastro, a visiera, che indicava forse una delle sue molte funzioni pubbliche: egli era insieme il becchino e il banditore comunale. Era lui che passava a tutte le ore per le vie del paese, suonando una trombetta e battendo su un tamburo che portava a tracolla, e con quella sua voce disumana annunciava le novità del giorno, il passaggio di un mercante, l’uccisione di una capra, gli ordini del podestà, l’ora di un funerale. Ed era lui che portava i morti al cimitero, che scavava le fosse e li seppelliva. Queste erano le sue attività normali, ma dietro ad esse c’era un’altra vita, piena di una oscura potenza impenetrabile. Le donne scherzavano con lui, quando passava, perché non aveva barba, e si diceva che in vita sua non avesse mai fatto all’amore. –
Ci vieni stasera a letto con me? – gli dicevano dagli usci, e ridevano, nascondendo il viso dietro la mani. – Perché mi lasci dormire sola? – Scherzavano, ma ne avevano rispetto, e quasi paura. Perché quel vecchio aveva un potere arcano, era in rapporti con le forze sotterranee, conosceva gli spiriti, domava gli animali. Il suo antico mestiere, prima che gli anni e le vicende lo avessero fissato qui a Gagliano, era l’incantatore di lupi. Egli poteva, secondo che volesse, far scendere i lupi nei paesi, o allontanarli: quelle belve non potevano resistergli, e dovevano seguire la sua volontà. Si raccontava che, quando egli era giovane, girava per i paesi di queste montagne, seguito da mandrie di lupi feroci. Perciò egli era temuto e onorato, e, negli inverni pieni di neve, i paesi lo chiamavano perché tenesse lontani gli abitatori dei boschi, che il gelo e la fame spingevano negli abitati. Ma anche tutte le altre bestie subivano il suo fascino, che non poteva rivolgersi alle donne; e non solo le bestie, ma gli elementi della natura e gli spiriti che sono nell’aria. Si sapeva che, nella sua gioventù, quand’egli falciava un campo di grano, faceva in un giorno il lavoro di cinquanta uomini: c’era qualcuno d’invisibile che lavorava per lui. Alla fine della giornata, quando gli altri contadini erano sporchi di sudore e di polvere, e avevano le schiene rotte dalla fatica e la testa rintronata dal sole, l’incantatore di lupi era più fresco e riposato che al mattino.
Risalivo dalla mia fossa per parlare con lui: gli offrivo un mezzo toscano, che egli si affrettava ad accendere, infilandolo in un bocchino fatto dell’osso della gamba posteriore destra di un lepre maschio, annerito dagli anni.
Si appoggiava alla vanga (egli scavava sempre nuove fosse) e si chinava a raccogliere, per terra, la scapola di un cristiano; la teneva un poco in mano, parlando, e poi la buttava in un canto. Il terreno era disseminato di ossa, che affioravano dalle vecchie tombe, che le acque e i soli avevano consumato; vecchie ossa bianche e calcinate.

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