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14 luglio 2019

da L’oro di Napoli – Giuseppe Marotta

da L’oro di Napoli – Giuseppe Marotta
Gli spaghetti

Chi entra in Paradiso da una porta non è nato a Napoli, noi il nostro ingresso nel palazzo dei palazzi lo facciamo scostando delicatamente una tendina di spaghetti. Fummo allattati in fretta, mentre cuocevano gli spaghetti; subito le nostre mamme ci staccavano dal seno e ci mettevano in bocca un frammento di spaghetto; prima lo avevano deterso, con le loro labbra, dal ragù: altrimenti si erano limitate a baciarlo. Io pure, cosa lascio ai miei figli, se non gli spaghetti che ereditai? L’importante, dico, è che li adattiate sempre agli stati d’animo e alle circostanze. Non fate mai il passo più lungo della gamba. Spaghetti, sì, ma mettetevi una mano sul cuore: chi siete per volerli alla genovese, o alle vongole, o addirittura impallinati di salsiccia, o bluastri di olive di Gaeta e argentei di alici salate, o screziati di indissolubile “mozzarella” o (per amor del cielo!) al gratin? Gli spaghetti che vi lascio sono fulminei e prudenti, spicci e al tempo stesso riflessivi, una improvvisazione e una massima: sono il cibo ideale per chi ha sfacchinato dalla mattina alla sera e non ne può più; sono gli spaghetti all’aglio e all’olio. Chiunque, col cappello in testa e col soprabito sul braccio, miope o duro d’orecchio, contento o disperato, è in grado di prepararli. Mentre l’acqua bolle l’olio frigge intorno all’aglio, un riso crudele su cui dovete spargere misericordiose foglioline di prezzemolo; acconsentite a qualche impercettibile bruciatura di questa subitanea salsa, ne vale la pena perché il perentorio sapore che essa conferirà agli spaghetti assorbe ed elimina ben altre amarezze; chiodo scaccia chiodo, ricordatevene; don Emilio Barletta, fabbricante di trottole al Ponte di Tappia, l’aglio lo faceva diventare nero nel padellino, riusciva così a sopportare perfino le infedeltà di sua moglie, poté rassegnarvisi come a una tassa.

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