Ode al cactus spostato - Pablo Neruda
Portammo un gran cactus
di entroterra
fino alla spiaggia verde.
Aveva le radici
il gigante
messe
nella pietra
e si afferrava
a quella dura
maternità
con sotterranei,
implacabili
vincoli.
Il piccone
cadeva
alzando
polvere
e fuoco,
la roccia
si scuoteva come
se partorisse,
e a fatica
si muoveva
l’obelisco verde,
corazzato
con tutte le spire
della terra,
finché
con un laccio
lo legammo
in alto
e tirando
tutti insieme
abbattemmo
la sacra colonna
dei monti.
Allora
custodito
e fermato,
avvolto in
sacco e corde
trascinammo
la sua irsuta
statura,
ma
appena
qualcuno
avvicinò la mano
al vegetale ardente,
questi
gli lanciò le sue spine,
e con sangue segnò la morsicatura.
Lo piantammo
orientato al mare cupo,
alto
contro
le onde,
nemico,
eretto per tutti
gli aculei
dell’orgoglio,
maestoso
nella sua nuova
solennità di statua.
E lì
rimaniamo
improvvisamente
tristi,
gli uomini
dell’impresa,
guardando
l’alto
cactus
dalla montagna andina
trasferito
nella sabbia.
Egli continuò
la sua
aspra
esistenza:
noi
ci guardiamo
come vilipesi,
vecchi
carcerieri.
Vento amaro
del mare
dondolò
l’esile
sagoma
dell’alto solitario con spine:
Egli salutò
l’oceano
con
un
im-
per-
cet-
ti-
bile
mo-
vi-
men-
to
e
conti-
nuò
lì
ele-
va-
to
nel
suo
mi-
ste-
ro.
1956
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