da Nati due volte – Giuseppe Pontiggia
Si chiama Elisa Bauer. È di Bolzano. Ha trentadue anni. Non ha mai avuto un disabile in classe ed è visibilmente agitata, quando la incontriamo per la prima volta. Ha preferito venirci a trovare lei, abitiamo a trecento metri dalla scuola.
I capelli biondi raccolti sulla nuca, si muove con una agilità elastica ed elegante, tanto attraente quanto chiusa in se stessa. qualcosa di più prossimo alla ginnastica che alla sensualità. È bella e ha una concentrazione assorta, una freddezza scostante, tipica delle donne che paventano l’emotività.
Tiene gli occhi abbassati, mentre le parliamo, a turno, del bambino. Siamo ormai esperti nel descriverlo in modi accattivanti. Sorridiamo con disinvolta scioltezza. Strategia sbagliata. Lei si sta convincendo, temo, che il bambino sia un mostro. Ci ha chiesto di che cosa soffre e la definizione, tetra paresi spastica distonica, deve averla atterrita.
Chiudo un attimo gli occhi, mentre Franca le chiarisce alcune deficienze di Paolo. Commettiamo sempre l’errore di attenuarle. Perfino con i medici, anzi soprattutto con loro. Cerchiamo che non si stanchi prima della visita, gli raccomandiamo quello che ci manca, la calma. Ci angosciamo ogni volta che sbaglia più del solito, quasi per dare una giustificazione oggettiva al nostro panico. Temo che siamo noi una coppia di mostri, assillati dalla paura, concordi solo nella speranza assurda di superarla.
Dovremmo semmai presentarlo nelle condizioni peggiori, per eludere una diagnosi accomodante e ottenerne una più attendibile.
I medici, quando si accorgono dei nostri raggiri, reagiscono con malcelata insofferenza. Quante fatiche inutili per influenzarli, mostrando che il bambino è più normale di quanto credono. Mai la verità è stata per noi così sfuggente e angosciosa.
La resistenza muta della signorina Bauer mi sta soffocando. Allora dico, senza guardare Franca alla mia destra, ma immaginando la sua reazione:
«Il suo sarà un compito durissimo. Ne sappiamo qualcosa. Dovrà impegnarsi a fondo. E magari si pentirà di averlo voluto in classe.»
Non è vero, non lo penso, ma lei alza finalmente gli occhi, mi dedica uno sguardo pacificato.
«Adesso non esagerare!» interviene Franca al mio fianco. Io le stringo il braccio fino a farle male, ci fissiamo un attimo con furore reciproco, mentre la signorina Bauer che non si è accorta di nulla e ha abbassato gli occhi, dice:
«Mi sembra un discorso costruttivo. Era questo che volevo sentirle dire.»
Franca si tocca il braccio. So che cosa mi aspetta dopo. Anche lei lo sa. Lo sappiamo tutti e due (forse è questo il matrimonio). La signorina Bauer aggiunge:
«Io preferisco essere preparata al peggio, non al meglio!»
«Ha ragione!» esclamo, come se lo scoprissi in quel momento.
La signorina Bauer alza gli occhi luminosi, velati di commozione:
«Sono fatta così. Nel lavoro mi è sempre di aiuto. Non crede che sia un bene?»
«Ma certo!» le concedo quell’entusiasmo di cui siamo prodighi quando non ci costa nulla. È ciò che differenzia, nello studio di un artista, i visitatori dagli acquirenti.
Si chiama Elisa Bauer. È di Bolzano. Ha trentadue anni. Non ha mai avuto un disabile in classe ed è visibilmente agitata, quando la incontriamo per la prima volta. Ha preferito venirci a trovare lei, abitiamo a trecento metri dalla scuola.
I capelli biondi raccolti sulla nuca, si muove con una agilità elastica ed elegante, tanto attraente quanto chiusa in se stessa. qualcosa di più prossimo alla ginnastica che alla sensualità. È bella e ha una concentrazione assorta, una freddezza scostante, tipica delle donne che paventano l’emotività.
Tiene gli occhi abbassati, mentre le parliamo, a turno, del bambino. Siamo ormai esperti nel descriverlo in modi accattivanti. Sorridiamo con disinvolta scioltezza. Strategia sbagliata. Lei si sta convincendo, temo, che il bambino sia un mostro. Ci ha chiesto di che cosa soffre e la definizione, tetra paresi spastica distonica, deve averla atterrita.
Chiudo un attimo gli occhi, mentre Franca le chiarisce alcune deficienze di Paolo. Commettiamo sempre l’errore di attenuarle. Perfino con i medici, anzi soprattutto con loro. Cerchiamo che non si stanchi prima della visita, gli raccomandiamo quello che ci manca, la calma. Ci angosciamo ogni volta che sbaglia più del solito, quasi per dare una giustificazione oggettiva al nostro panico. Temo che siamo noi una coppia di mostri, assillati dalla paura, concordi solo nella speranza assurda di superarla.
Dovremmo semmai presentarlo nelle condizioni peggiori, per eludere una diagnosi accomodante e ottenerne una più attendibile.
I medici, quando si accorgono dei nostri raggiri, reagiscono con malcelata insofferenza. Quante fatiche inutili per influenzarli, mostrando che il bambino è più normale di quanto credono. Mai la verità è stata per noi così sfuggente e angosciosa.
La resistenza muta della signorina Bauer mi sta soffocando. Allora dico, senza guardare Franca alla mia destra, ma immaginando la sua reazione:
«Il suo sarà un compito durissimo. Ne sappiamo qualcosa. Dovrà impegnarsi a fondo. E magari si pentirà di averlo voluto in classe.»
Non è vero, non lo penso, ma lei alza finalmente gli occhi, mi dedica uno sguardo pacificato.
«Adesso non esagerare!» interviene Franca al mio fianco. Io le stringo il braccio fino a farle male, ci fissiamo un attimo con furore reciproco, mentre la signorina Bauer che non si è accorta di nulla e ha abbassato gli occhi, dice:
«Mi sembra un discorso costruttivo. Era questo che volevo sentirle dire.»
Franca si tocca il braccio. So che cosa mi aspetta dopo. Anche lei lo sa. Lo sappiamo tutti e due (forse è questo il matrimonio). La signorina Bauer aggiunge:
«Io preferisco essere preparata al peggio, non al meglio!»
«Ha ragione!» esclamo, come se lo scoprissi in quel momento.
La signorina Bauer alza gli occhi luminosi, velati di commozione:
«Sono fatta così. Nel lavoro mi è sempre di aiuto. Non crede che sia un bene?»
«Ma certo!» le concedo quell’entusiasmo di cui siamo prodighi quando non ci costa nulla. È ciò che differenzia, nello studio di un artista, i visitatori dagli acquirenti.
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